La sua storia è vecchia di quasi 160 anni, ma il grande pubblico ha scoperto l’esistenza di Hart Island soltanto in questi giorni. Un’immagine che stride con l’ostentata modernità della città più all’avanguardia degli Stati Uniti, New York. Che si sta preparando alla morte silenziosa di quanti vivono ai margini della società che la abita.
La sua storia è vecchia di quasi 160 anni, ma il grande pubblico ha scoperto l’esistenza di Hart Island soltanto in questi giorni. A rimbalzare sui media internazionali sono le fotografie dei mezzi al lavoro per lo scavo di quelle che hanno tutta l’aria di essere fosse comuni, fra vecchi edifici abbandonati a fare da cornice.
Un’immagine che stride con l’ostentata modernità della città più all’avanguardia degli Stati Uniti, New York. «Una soluzione temporanea», aveva assicurato alla CBS il sindaco di New York, Bill de Blasio, ad inizio aprile, quando ancora la notizia circolava soltanto negli Usa. «Cercheremo di trattare ogni famiglia con dignità e rispetto. Non saranno fosse comuni». Dichiarazioni che in pochi giorni sono andate in pezzi al confronto con la pandemia di Covid-19: oltre 500 mila casi di contagio scoperti negli Stati Uniti, quasi 30 mila guariti ma anche 19 mila morti, mentre l’emergenza sembra solo all’inizio.
Anche in questi giorni segnati dal coronavirus, Hart Island, una fascia di terra al largo del Brox, conferma la propria triste fama. Dopo uno sguardo a Wikipedia, i media italiani e internazionali ne hanno per lo più tradotto le fasi della storia – campo di prigionia durante la guerra civile, manicomio, sanatorio per malati di tubercolosi, rifugio per senzatetto, riformatorio per minorenni, carcere, centro di riabilitazione per tossicodipendenti.
Con un tratto comune che, però, rischia di sfuggire: il marchio dell’esclusione. Da oltre un secolo e mezzo Hart Island è il luogo dei malati, degli indesiderati, degli scartati dalla società e, troppo spesso, anche da un sistema sanitario punitivo. Anche l’inizio della sua storia pubblica ci parla di discriminazione: campo di addestramento per le truppe dell’esercito unionista durante la Guerra di secessione, sì, ma non di soldati qualunque: gli afroamericani dell’USCT, United States Colored Troops, i reparti “di colore” dell’esercito americano. Una risorsa preziosa per l’esercito nordista, e anche di grande significato simbolico, certo, ma tutt’altro che in grado di fare venire meno la segregazione.
Ma, soprattutto, oggi – e da decenni – Hart Islad è il luogo designato per accogliere in fosse comuni quanti non riposano nel grande sogno americano, 69 mila dal 1980: individui la cui identità è ignota al momento della morte, persone le cui famiglie non possono – o non vogliono – permettersi un funerale, ma anche numerosi malati di AIDS durante gli anni ’80 (forse diverse migliaia, ricorda il New York Times in un lungo reportage del 2018).
E poi bambini, un terzo delle sepolture ogni anno. Metà di loro ha meno di cinque anni, ma sono molti quelli nati morti. Per tutti loro le madri hanno autorizzato una sepoltura a carico della città: una formula anonima dietro la quale si cela un’indicibile solitudine. Proprio i corpi dei bambini, infatti, sono quelli che meno frequentemente vengono cercati e reclamati dai genitori.
Sepolti, anche nella memoria. Ma sepolti da chi? Da altri emarginati. Si tratta dei detenuti del carcere di Rikers Island – un’altra isola, un’altra barriera naturale e mentale – per i quali, agli occhi della società, i crimini commessi hanno avuto l’ultima parola. Mezzo dollaro all’ora è quanto ricevuto dai detenuti per il lavoro di sepoltura a Hart Island.
Proprio l’aumento del compenso per questo lavoro già alla fine di marzo aveva fatto sospettare che qualcosa si stesse muovendo a Hart Island: sei dollari l’ora, una piccola fortuna per i detenuti di Rikers, per chi avesse accettato di scavare fosse comuni. La fornitura di equipaggiamento di protezione – mascherine, in particolare – ha fatto da subito immaginare una relazione con le vittime di Covid-19.
Ad oggi, il collegamento con la pandemia di coronavirus, che proprio a New York ha il suo epicentro negli Stati Uniti, non è confermata. Molti, però, sono gli indizi che lo confermerebbero. La città si sta preparando alla morte silenziosa di quanti sono ai margini della società che la abita. Senza un’autorizzazione del Dipartimento di correzione di New York, sotto la cui responsabilità ricade il territorio dell’isola, realizzare foto e video su Hart Island è proibito. Il filmato realizzato da Melinda Hunt, direttrice del gruppo no-profit Hart Island Project, però, ha già fatto il giro del mondo. Vi si vedono, fra le altre cose, detenuti in tute protettive collocare bare, una sopra l’altra, in una grande fossa scavata sull’isola.
Anche i numeri raccontano una storia nuova. Il 2 aprile scorso 23 corpi sarebbero stati sepolti su Hart Island, contro una media di 25 cadaveri alla settimana nel periodo precedente l’epidemia. Da marzo le cifre sono salite, e ora si stima che sull’isola vengano seppelliti una ventina di corpi al giorno, cinque giorni la settimana. Anche da ognuna di quelle fosse salirà una «voce rauca», come l’ha definita papa Francesco durante la Via Crucis di ieri. Nessuna storia di fantasmi, però: è soltanto la voce dell’emarginazione che grida a Dio. Ben più reale e spaventosa.
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