In memoria del G7. Di Guitti e di Giullari

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Ci sono l’evidente familiarità con il brasiliano Lula da Silva e l’entusiasmo esibito dall’argentino Javier Milei dopo i pesanti insulti rivolti al papa. Ma anche la freddezza di Francesco di fronte alle strategie di gestione dei flussi migratori di Rishi Sunak. E poi c’è la macchina del consenso: che gode della visibilità offerta dalla presenza del pontefice. Con esiti a volte tragicomici.

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Il tanto atteso G7, insieme alla prima “storica” partecipazione di un pontefice all’assise, sembra archiviato in meno del battito di ciglia di una campagna elettorale. E forse la ragione è proprio questa: lo stato di immanente gestione reputazionale che, più che in altri momenti, accomunava alcuni dei principali leader mondiali presenti al vertice, irrigidendoli nel canovaccio di politiche autoreferenziali e di ricerca del consenso. E l’inevitabile cassa di risonanza rappresentata da papa Francesco non ha fatto che esacerbare la lotta per occupare la scena.

Il meme Biden

Da questo punto di vista, il caso del presidente statunitense è esemplare. L’esagerata confidenza con cui Joe Biden ha accolto l’ingresso di papa Francesco in sala non poteva passare inosservata: prima la stretta di mano, poi il mezzo abbraccio e infine l’inesorabile avvicinamento al volto del papa, tanto da appoggiare la propria fronte alla sua. Una scena a dir poco imbarazzante, offerta ai posteri (cui hanno contribuito i numerosi sfottò diffusi in rete) insieme all’espressione esterrefatta del Santo Padre e di chi assiste impotente all’episodio. Dimostrazione, di cui non sentivamo il bisogno, di quanto in Joe Biden l’esperienza stia concedendo più margine alla confusione che alla saggezza.

Inutile negare, infatti, che età avanzata nel peggiore dei modi e scarsa competenza sono fra i tratti in comune ai due candidati alla presidenza Usa. Un esito che, più efficacemente di altri, testimonia la fase di decadenza della leadership globale statunitense e il tramonto dell’unipolarismo liberale che ha dominato il mondo dopo la fine della Guerra fredda. Con il rischio di cedere il passo ad una lunga e incerta notte.

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L’abito di Macron

La giacca infilata frettolosamente dal président ouvrier all’arrivo di papa Francesco è solo uno dei molti abiti indossati da Emmanuel Macron al G7. Il presidente francese, fresco della batosta europea che l’ha costretto ad elezioni anticipate, non lesina strette di mano e pacche sulle spalle al papa, come in passato aveva fatto con abbracci e carezze fuori luogo.

D’altro canto, Macron come Biden è in piena campagna elettorale: l’eccessiva vicinanza ad un rappresentante della Chiesa cattolica, per quanto fra i meglio tollerati dalla gauche, può rivelarsi controproducente ai seggi. Nel mezzo di conflitti che minacciano più vite di quante ne difendano, lo scontro ingaggiato con Giorgia Meloni sui temi dell’aborto e dei diritti lgbtqia+ nell’ambito di un vertice (anche) sulle intelligenze artificiali finisce con il certificare la crescente scarsità di quelle naturali.

La cartellina nera di Zelens’kyj (che non c’è)

Proprio l’impiego delle intelligenze artificiali nei teatri di conflitto, aspramente criticato da papa Francesco nel suo intervento al G7, non è che l’ultimo dei punti di attrito con il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj.

Hanno fatto più volte il giro del mondo le accuse mosse al pontefice di aver assunto (presunte) posizioni filo-russe, ma la vera distanza fra i due sta in ciò che è ritenuto soluzione alla guerra: più armi, secondo Zelens’kyj (e buona parte dei capi di governo occidentali), una riconciliazione che salvaguardi vite e giustizia, secondo papa Francesco. Per questo, la cordialità manifestata in occasione del G7 e dell’incontro bilaterale lascia supporre che il presidente ucraino, almeno per il momento, abbia lasciato a Kiev la celebre cartellina nera squadernata tempo fa sulla scrivania del papa.

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Il nazionalismo ridimensionato di Modi

Se l’invasione russa costringe il presidente ucraino ad un delicato equilibrio fra consenso internazionale, popolarità interna e gestione di un fronte affamato di vite, chi può dire di avere già vinto – per il momento – la propria battaglia è il presidente indiano Narendra Modi, recentemente confermato per la terza volta alla guida del gigante asiatico.

A dirla tutta, il voto in India ha registrato un ridimensionamento del Bharatiya janata party (Bjp), il partito nazionalista indú del premier. Nonostante questo, Modi ha salutato il risultato come «la vittoria più grande nel mondo». Non è difficile immaginarlo, anche in considerazione del numero di votanti: più di mezzo miliardo.

Nondimeno, stringere alleanze – oltre che abbracci – per formare un governo è d’obbligo per Modi. Se da un lato, in campagna elettorale l’opposizione l’aveva accusato di usare il sistema giudiziario come arma politica, le organizzazioni per i diritti umani avevano evidenziato la tendenza di Modi a favorire gli indù a scapito delle minoranze, tra cui 210 milioni di musulmani e 27 milioni di cristiani. Numerosi gli atti di violenza, le discriminazioni sistematiche e i processi divenuti strumento di repressione. Fra i casi più dolorosi, la morte tre anni fa del gesuita padre Stan Swamy, deceduto il 5 luglio 2021 dopo 233 giorni di reclusione nel carcere di Mumbai con l’accusa di terrorismo, nonostante i suoi 84 anni e una grave forma di Parkinson.

Sono molti – e riservati – i temi nell’agenda diplomatica fra Santa Sede e India, ma l’accoglienza tributata da Modi a papa Francesco al G7 sembra stridere con il contesto nazionale e con la storia politica del primo ministro indiano. Che il rinnovato invito a visitare l’India rivolto al Santo Padre, già formulato in passato, rappresenti un punto di svolta? Speriamo. Ma se il G7 è un palco, il rischio è che l’affetto sia solo una scena imposta dal copione.

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