Il bracciante indiano Satnam Singh come il sudafricano Jerry Masslo in fuga dall’apartheid, ucciso 35 anni fa. Ma l’indifferenza è aumentata, insieme all’ipocrisia.
Quanto è passato? Due settimane. Il tempo di un nuovo fallimento calcistico italiano, di un’elezione in Francia e dell’ennesima alluvione. Poco più di quanto serve per un funerale.
Ma anche 35 anni, da quando in Italia il presidente della Repubblica era Francesco Cossiga e il governo del pentapartito era il sesto di Giulio Andreotti, le macerie del muro di Berlino stavano per franare insieme al Blocco comunista e gli Stati Uniti di George H. W. Bush intervenivano militarmente a Panama contro Manuel Noriega.
Alcune cose cambiano. Altre, invece, strisciano in silenzio lungo gli angoli bui della storia, per non cambiare mai.
È il 25 agosto 1989 quando Jerry Essan Masslo viene ucciso nella baraccopoli venuta su insieme a povertà e speranza fra i ruderi di Villa Literno. Masslo è un rifugiato sudafricano, cui l’apartheid ha ucciso una figlia. O almeno dovrebbe esserlo, anche se la burocrazia italiana dice altro. Quell’attesa, di nuovo. Raccoglie pomodori nelle campagne del Casertano, Masslo, che ha smarrito un fratello lungo la strada per l’Italia e il proprio destino una volta arrivato. Inutile sperare di vivere, ci si accontenta di sopravvivere, versando altro sangue, ma onestamente. Sin troppo facile trovare la differenza con la banda di italiani che, in una notte di mezza estate priva di sogni, sceglie la via della baraccopoli di Villa Literno per rubare mesi di salario da sfruttamento.
Dopo il proiettile che lo uccide, a Masslo l’Italia dona funerali di Stato e una revisione dell’iter per il riconoscimento dello status di rifugiato. Le manifestazioni di massa che seguono l’assassinio di Jerry Masslo scuotono il Paese. Per i numerosi lavoratori e lavoratrici stranieri è la volontà di dimostrare di non essere solo braccia, ma anche testa, cuore e anima. Diritti, oltre che doveri. Per i cittadini italiani, è la presa di coscienza di non essere più soli in mezzo al Mediterraneo, se mai lo siamo stati nella storia. Motore della prima normativa organica sull’immigrazione e di una nuova legge per l’acquisizione della cittadinanza, la stessa ancora in vigore oggi, più di trent’anni dopo, sempre più anacronistica in un’Italia completamente diversa.
È la scoperta del caporalato in agricoltura. Nel 1989 e di nuovo nel 2024. Se non fosse tragico, sarebbe grottesco. Il sesto e più recente rapporto su agromafie e caporalato, pubblicato nel 2022 dall’Osservatorio Placido Rizzotto, stima che nei campi italiani vengano sfruttate circa 230 mila persone, un quarto di tutti i braccianti. Un fenomeno che riguarda italiani e stranieri, uomini e donne, tanto che sarebbero circa 55 mila quelle costrette a lavorare in condizioni di irregolarità.
Una ferita che non conosce né autonomie né differenze sostanziali, se è vero che la geografia del caporalato unisce Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio, con tassi di irregolarità che superano il 40%, a molte regioni del Nord Italia, dove i tassi di irregolarità degli occupati sono comunque compresi tra il 20 e il 30%.
Lavoro irregolare, per italiani e stranieri, significa assenza di orari definiti, salari discrezionali, sicurezza mancante, coperture assistenziali e previdenziali inevase, con i lavoratori stranieri per giunta in ostaggio delle procedure per acquisire o rinnovare lo status regolare di permanenza, e dunque dei diritti correlati al lavoro e alla cittadinanza.
All’ombra dello scontro di potere, ammantato di vecchie ideologie, che scuote l’Italia e l’Europa, si protrae un’ipocrisia lunga oltre 30 anni, immagine di società catatoniche, incapaci di reagire se non per istinto, condannate all’oblio di ogni progettazione politica. E l’istinto, si sa, non dura più che lo spazio di alcuni giorni.
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