Parlare di nuovo di me? Solo per parlare di loro e di storia e attualità della migrazione e della malattia mentale. Domani, giovedì 9 giugno, alle ore 17.00 presso l’Urban Center di Galleria Vittorio Emanuele II 11/12 (di fronte a Piazza della Scala) si parlerà di migrazioni e malattia mentale nella presentazione del mio libro “La follia del partire, la follia del restare”. Qualche chiave di lettura del libro e dell’incontro la fornisce un’intervista realizzatami da Raffaele Iaria per Migranti Press, il mensile della Fondazione Migrantes, pubblicata sul numero di aprile 2016.
“La follia del partire, la follia del restare”. Il disagio mentale nell’emigrazione italiana in Australia alla fine dell’Ottocento.
Un aspetto inedito dell’emigrazione italiana e cioè il problema del disagio mentale – nelle diverse forme della follia, della depressione e dell’incomprensione – come “prodotto” del fenomeno migratorio viene oggi presentato nel volume “La follia del partire, la follia del restare” edito dalla Tau e inserito nella collana della Fondazione Migrantes “Testimonianze ed esperienze delle migrazioni”. Si tratta di una ricerca realizzata dallo storico Simone Varisco, che prende in esame, in particolare, l’emigrazione italiana della seconda metà dell’Ottocento diretta verso l’Australia. “Migrare è partenza, e il partire significa allontanarsi dagli affetti e dalle certezze e molti migranti non riescono a superare il dolore dello strappo – scrive Mons. Gian Carlo Perego, direttore generale della Migrantes nell’introduzione –. Il cammino, il viaggio non sempre è facile: talora porta solitudine, fatica, anche violenza”. Ma come nasce questa ricerca? Lo abbiamo chiesto all’autore Simone Varisco.
Nasce – risponde – dalla volontà di contribuire ad introdurre nello studio del fenomeno migratorio aspetti sempre più umani e umanizzanti, sviluppandolo oltre i più consueti ambiti geografici, storici e statistici. È un approccio – alla storia, alla sociologia, alla geografia delle popolazioni – che privilegia uno sguardo empatico, attraverso il quale considerare le migrazioni non solo come i fenomeni di massa che certamente sono, ma anche come fenomeni nei quali la massa è il risultato di un intreccio di storie di vita. In questo approccio di ricerca aspetti come la cultura, la psicologia, il linguaggio, la religione, l’ambiente, lungi dall’escludere dati puramente cronologici e statistici – o dall’esserne esclusi – ne costituiscono la naturale incarnazione ed un privilegiato ambito di indagine.
Perché ha voluto trattare questo tema e questo fenomeno proprio nell’emigrazione italiana in Australia?
Per riunire in un medesimo studio due ambiti accomunati dall’essere d’attualità eppure poco o per nulla trattati dalla ricerca, come l’emigrazione italiana in Australia e la malattia mentale. La prima è stata finora poco considerata perché costituì una quota minoritaria nella storia dell’emigrazione italiana, che tradizionalmente privilegiò altre direttrici, per lo più verso le Americhe e alcuni Stati europei. La seconda, perché ritenuta difficilmente “misurabile” e perché gravata da un plurisecolare stigma sociale che rende tuttora difficile parlarne. In entrambi i casi, però, come detto, ci troviamo di fronte a temi di grande attualità. L’analisi dell’emigrazione italiana in Australia lo è perché negli ultimi anni gli italiani sono tornati, per lo più nuovamente in sordina, a cercarvi fortuna. La malattia mentale perché, accompagnando ogni migrazione, ed in special modo le più sofferte, si propone oggi come problematica qualitativamente e quantitativamente di grande urgenza, della quale l’Italia e la quasi totalità dei Paesi coinvolti dagli attuali flussi migratori hanno iniziato ad occuparsi con grave ritardo.
Quali storie particolari sono state al centro della sua ricerca?
Quelle degli emigranti italiani ricostruibili grazie alle lettere scritte dagli stessi emigranti ai familiari e agli amici rimasti in patria e ad altri documenti d’archivio, italiani, svizzeri e australiani. In quest’ultimo caso particolare importanza hanno avuto i registri dei manicomi australiani – o asili dei lunatici, secondo la denominazione dell’epoca – sino ad ora in gran parte inediti. Queste stesse fonti mi hanno permesso di estendere lo studio agli altri “italiani” che scelsero l’Australia come loro meta migratoria. È così che accanto agli italiani politicamente intesi – con tutti i limiti che ha una tale definizione alla metà di un Ottocento che per l’Italia era ancora preunitario – provenienti per lo più dalle aree economicamente più depresse di Lombardia, Veneto e Piemonte, trovano spazio nel libro i numerosissimi svizzeri italiani per lingua e cultura, in massima parte provenienti dal Canton Ticino, che negli stessi anni cercarono fortuna nel Continente Nuovissimo, attratti, al pari degli italiani, dalla corsa all’oro. Insieme ai loro, nel libro sono trattati i casi di quanti ebbero qualche tipo di legame con questi emigranti: è il caso degli irlandesi, giovani donne soprattutto, che, partite anch’esse alla volta dell’Australia, finirono talvolta con l’unirsi in matrimonio ad emigranti italofoni, intrecciando con questi le proprie esistenze, anche psicologiche. Da queste considerazioni, è comprensibile la mia scelta di indagare con particolare attenzione la famiglia – nucleo fondante della società ed elemento fondamentale anche nelle migrazioni, nei diversi scenari possibili della sua sofferta assenza, dell’aiuto che potrebbe provenirne laddove fosse presente e della conflittualità che vi si può innescare – e delle donne, alle quali nel libro è dedicato uno spazio proprio, sebbene mai in alienazione o in contrapposizione rispetto alla complementare parte maschile.
Questo fenomeno è presente anche in altri continenti? Ha qualche storia da raccontarci?
Quello del disagio mentale è un fenomeno presente in ogni migrazione, con storie in grado di attraversare con sorprendente somiglianza i continenti, le epoche e le nazionalità. Padri che cercano figli e figlie dispersi e fagocitati da un sistema sanitario insufficiente e ancora agli albori per quanto riguarda il trattamento della malattia mentale; madri sottratte all’affetto dei loro figli, perché piombate nell’abisso psicotico del mal di vivere e internate; storie che mi ha appassionato e addolorato riferire, come quella di Pietro Antognini, trasferito per oltre centocinquanta chilometri da Sandhurst, l’attuale Bendigo, a Yarra Bend, vicino Melbourne, nell’estremo tentativo di trovare un posto per lui e il suo bagaglio di sofferenza. Gli Stati hanno confini, le storie no.
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