Conversione e religione del mondo

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Perché anche la Chiesa, come il mondo, ha le sue “guerre”, frutto di una multipolarità che non ha mai stemperato il tradizionale bipolarismo fra blocchi contrapposti.


C’è un vecchio e gustoso libro, scritto dal giornalista Giovanni Gigliozzi e pubblicato da Bietti alla fine degli anni ’70, che si intitola La conversione del papa. Taccio la trama a beneficio dell’effetto sorpresa. Qualcuno – con maligna provocazione – potrebbe trovarlo di rinnovata attualità. E la presentazione al volume, scritta a suo tempo da Giulio Andreotti, potrebbe solo peggiorare le cose.

Perché anche la Chiesa ha le sue “guerre”. Un esito umanamente scontato, ma anche un fallimento critico, che – su ben altra scala di violenza e intensità – ha radici simili a quello della geopolitica globale. Frutto di una multipolarità che non ha mai stemperato il tradizionale bipolarismo fra blocchi contrapposti.

E poi il ritorno della guerra nel continente che per secoli è stato il motore della cristianità mondiale, l’Europa, ha mutato radicalmente anche gli umori della Chiesa, al proprio interno e rispetto al contesto politico mondiale, in un momento chiave come quello di un Sinodo carico di aspettative. Non si tratta di un inedito, e se si guarda alla storia degli appuntamenti sinodali e conciliari la si scopre legata a doppio filo alle turbolenze internazionali. Almeno tanto quanto al bisogno di conversione. Ma conversione a cosa? A chi?

La conversione del vescovo (e del papa)

L’incontro in Vaticano di papa Francesco con la suora statunitense Jeannine Gramick, attivista per i diritti omosessuali e fondatrice del gruppo New Ways Ministry per una Chiesa «LGBTQ-friendly» (traggo l’espressione dal sito del gruppo, che offre un elenco di parrocchie e comunità affini per vocazione), ha riportato in primo piano nell’agenda del Sinodo la questione omosessuale, nelle sue infinite declinazioni, come e più di quanto avevano fatto a loro tempo i ben noti dubia imporporati.

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E c’è chi ora parla, rispetto a questo tema, di una «conversione». È il caso dell’arcivescovo di Riga, in Lettonia, mons. Zbigņevs Stankevičs, che ammette di essere «passato attraverso una conversione pastorale», «perché prima giudicavo solo queste persone [omosessuali]», ma di aver in seguito compreso che «anche l’omosessuale è il mio prossimo, e devo amarlo. Ma come? Amare nella verità, un amore vero, non un amore che permette tutto».

La posizione di mons. Stankevičs, comunque più chiara di altre in merito alla benedizione delle coppie omosessuali (sì, se vi è un impegno alla castità; no, se la sessualità è vissuta attivamente, perché in questo caso «stiamo benedicendo la vita nel peccato»), è frutto, per stessa ammissione del prelato, di un momento di «illuminazione», ispirato dall’atteggiamento di accoglienza di papa Francesco e dal suo ormai celebre “chi sono io per giudicare?”.

Conversione al mondo?

C’è però un altro tipo di conversione che, nel rapporto della Chiesa con quanto c’è fuori di essa, sembra aver trovato spazio nel cuore di molti: la conversione alle logiche del mondo, al neo-manicheismo della geopolitica dei “buoni” e dei “cattivi” senza storia e sfumature, all’insaziabile rincorsa all’uniformazione mercatistica alla disperata ricerca di consenso.

«È una lotta tra i figli della luce e i figli delle tenebre, tra l’umanità e la legge della giungla». Il tweet, in seguito rimosso, del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

La medesima che, nella Chiesa, spinge ad arroccarsi sulle barricate, oppure a dire che «siamo rimasti indietro», espressione più o meno inconsapevole di una vecchia antropologia che tanti danni ha già causato in passato. Perché non siamo imprigionati in un movimento bidirezionale su un’unica strada e un’unica storia uguale per tutti – avanti o indietro, sviluppo secondo lo stile occidentale o arretratezza, progressismo oppure oscurantismo –, bensì incamminati lungo una molteplicità di vie alternative, ma altrettando valide, per vivere il presente e preparare il futuro. Fantasia rivoluzionaria del messaggio cristiano.

Si ammette, infatti, che l’Europa non è più il centro del mondo e della Chiesa – per numeri, per propulsione, per vitalità –, ma contemporaneamente si prova ad imporre all’agenda universale, del mondo civile come ecclesiale, questioni e storture tipicamente occidentali, siano esse l’esportazione armata della democrazia oppure la crisi antropologica della famiglia.

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Realtà e realismo

Per troppo tempo a buona parte del mondo politico e ad una parte di quello ecclesiale è mancato il coraggio di incontrare la realtà per come è, lasciandosene interrogare e toccare in profondità, senza però farsi sviare dalla propria conversione, nella pretesa di seguire un mondo che ha perduto la propria direzione e il senso del cammino.

È inevitabile, e in buona misura sano, che la Chiesa guardi al mondo. Così come è normale che oggi, in luogo della cultura dei secoli passati, ci sia quella del presente, con le proprie conquiste, i propri valori e i propri disvalori. Una cultura, lo hanno ricordato spesso gli ultimi pontefici, con la quale entrare in un dialogo franco. Sarebbe ingenuo, forse illusorio, sicuramente malsano, pensare che questi “due mondi” possano ignorarsi.

Impossibile, ad esempio, non comprendere che la sovrabbondante ripetitività nella Chiesa di alcune tematiche, su tutte quelle sessuali e bioetiche, che valgono un dubium specifico e numerosi interventi, non sia il frutto anche di un dibattito civile e politico teso. Non c’è intervento del Papa, ormai, che non tocchi in qualche misura questi argomenti: dall’intervista a Vida Nueva prima del viaggio apostolico a Lisbona fino ai programmi Disney.

Una discussione per giunta animata da alcuni protagonisti ricorrenti, da uomini della politica alla Conferenza episcopale tedesca, fino al gesuita James Martin, che, a poche ore dalla riproposizione delle risposte di papa Francesco ai dubia degli scorsi mesi, dichiara la propria esperienza in tema di «numerosi sacerdoti gay e casti nella Chiesa».

L’agenda del mondo

Quanto, però, la cultura del mondo possa risultare efficacemente pervasiva è dimostrato dalle posizioni assunte dal vescovo di Anversa, Johan Jozef Bonny, in tema di eutanasia. «L’eutanasia non è necessariamente un male di per sé», spiega mons. Bonny. «La filosofia mi ha insegnato a non accontentarmi mai di risposte generiche in bianco e nero. Tutte le domande meritano risposte adeguate alla situazione: un giudizio morale deve sempre essere pronunciato in base alla situazione concreta, alla cultura, alle circostanze, al contesto. Dobbiamo imparare a definire meglio i concetti e a distinguere meglio le situazioni». A maggior gloria di Dio, del mondo o della confusione?

Dal canto suo, solo poche settimane fa papa Francesco ha tracciato un’immagine di Chiesa sinodale «che, fra le onde talvolta agitate del nostro tempo, non si perde d’animo, non cerca scappatoie ideologiche, non si barrica dietro convinzioni acquisite, non cede a soluzioni di comodo, non si lascia dettare l’agenda dal mondo». Non foss’altro perché, alla prova dei fatti, quella del mondo sarebbe un’agenda mancante di giorni e ben vuota di contenuti.

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