«Sparire perché rimanga Cristo». Un invito a seminare gesti buoni – cura, fede, bellezza – anche quando il campo è ostile, anche quando il seme sembra un’illusione come tante.
A una settimana dalla sua prima udienza generale, possiamo affermare che il riferimento di Leone XIV al dipinto di Vincent Van Gogh, Seminatore al tramonto, è risultato vincente, quantomeno a giudicare dalla quantità di reazioni generate sui media. Superfluo aggiungere qualcosa al commento dell’opera in sé, per il quale rimando, fra i numerosi, a quello del gesuita padre Andrea dall’Asta su Avvenire.

Fa riflettere, però, il fatto che spesso «ci fissiamo su un certo modo rigido e chiuso di vedere le cose, e le parabole ci aiutano a guardarle da un altro punto di vista», come evidenziato da Leone XIV nella sua seconda udienza del mercoledì, questa settimana. Perché il seminatore, tanto quello ritratto nei Vangeli sinottici quanto quello raffigurato da Van Gogh, è un tipo «alquanto originale». Nel dipinto quasi scompare: rubati i toni metallici del grigio e dell’azzurro alla terra, si confonde con il campo, tanto che ad un primo sguardo è difficile distinguerne i contorni. Persino sacco e cappello prendono in prestito i colori dello sfondo, virando al giallo del grano maturo e del cielo infuocato.
Se del primo ha parlato il pontefice, accostandolo ad «un’immagine di speranza», il secondo dice della particolarità di un lavoro condotto in prossimità della sera: ultimo atto di una giornata operosa oppure inizio dell’impresa, in cui ci si affretta mentre il resto del grano è già cresciuto e il giorno volge ormai al termine? Se fosse questa seconda lettura a prevalere, oltre che alla parabola del seminatore risulterebbe naturale un rimando a quella dei lavoratori della vigna (Mt 20,1-16).
Seminatore al tramonto non è soltanto una scena agricola o una facile allusione al Vangelo: è una teologia del limite, del gesto che è segno dell’invisibile. Provate, ancora più del seminatore, a distinguere il seme, che viene gettato nel caos che domina lo stile di Van Gogh. È impercettibile, eppure interroga e scuote l’intera ambientazione: è la ragione che muove l’uomo e gli uccelli, è l’accolto o il rigettato dalla terra, è la meta di sentieri altrimenti interrotti, è la causa che porta frutto.
Il campo non è ordinato, né tantomeno riceve il seme con passività: anzi reagisce, in certa misura si oppone. Al pari del cuore umano che, in preda a forze invisibili, non sempre è aperto a ricevere il bene. Il gesto del seminatore diventa allora atto educativo, gesto terapeutico e azione pastorale: seminare in un campo disordinato senza aspettarsi una buona disposizione, fidandosi della potenza silenziosa di un seme che neppure si è in grado di vedere. Un invito a seminare gesti buoni – cura, fede, bellezza – anche quando il campo è ostile, anche quando il seme sembra un’illusione come tante.
L’uomo getta, la terra vibra, il sole incombe. Nella tensione tra l’atto e il frutto, tra ciò che viene operato oggi e un risultato a cui non si assisterà domani, il seminatore di Van Gogh è un profeta dell’irrilevanza apparente. Il suo gesto è liturgico, sacramentale: opera nel mondo senza pretendere di dominarlo. Fattosi simile per invisibilità al seme, è presente nel gesto ma celato nell’evidenza.
La semina è una preghiera silenziosa, ma anche un atto di resistenza al tempo. Seminare è investimento nel futuro, ma la pittura di Van Gogh non aspetta il raccolto: dipinge il gesto, non necessariamente il suo sviluppo. L’arte profetica del seminatore di Van Gogh è esistenzialista come Rothko, spirituale senza dogmi come Klee, politica nel silenzio come Käthe Kollwitz. È atto di resistenza alla delusione, al vuoto, alla morte del senso.
In certo modo, Leone XIV potrebbe sentirlo vicino alla maniera in cui dichiara di interpretare il proprio ministero. Il proprio essere seminatore. «Sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato», dice anzitutto a sé stesso il papa, nella sua prima omelia. Come il seminatore di Van Gogh, il pontefice – primum inter christianos – è un seminatore della speranza, che distribuisce parole, gesti e silenzi in un terreno che spesso è in apparenza inaridito – dall’umanità ferita, dalla cultura secolare, dall’indifferenza religiosa. È un contadino del senso, che si affatica nel campo di un’umanità confusa e ormai quasi spoglia. E lo fa senza la pretesa di sistemare ogni cosa né di abbellire il paesaggio, ma sporcandosi le mani con quel che c’è, fosse anche solo la metà di un campo e una casupola, toccando il dolore, accettando l’ambivalenza dei tempi.
Come il seminatore di Van Gogh, ogni cristiano attende il raccolto, consapevole che forse non ne vedrà la maturazione. La sua è una fede che semina, non che raccoglie. Si muove sotto un Dio che osserva, che guida, ma che lascia liberi e che custodisce il mistero della crescita. È un operaio che lavora sotto il sole, cosciente di non essere la fonte della luce. Non è l’uomo delle risposte, ma colui che, anche senza certezze immediate, getta semi di Vangelo nel tempo. Si fida dell’attesa, cammina nel campo del mondo, parla con le mani e il silenzio. È un contadino che non custodisce il potere, ma che si fa servo nella semina.
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