Adeguamento o sfida educativa? Un nuovo protagonista: l’analfabetismo religioso

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Fermandosi ad una fredda lettura delle cifre, il risultato non può che essere quello di un certo sconforto e, perché no, di un franco sconcerto. Questi almeno due dei tanti possibili sentimenti suscitati in chi si trovasse ad esaminare i risultati del Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (a cura di A. Melloni, ed. Il Mulino) presentato ieri a Palazzo Giustiniani.

Se l’analfabetismo di base — quello del leggere e dello scrivere — appare (forse) sconfitto, ben diversa e più decisamente bruta appare l’ignoranza — difficile trovare un termine più appropriato — degli italiani rispetto alle “cose di religione”. Se aveva stupito l’incapacità degli statunitensi di “trovarsi” sulla cartina geografica, replicata poi dalla Cancelliera tedesca con il proprio Paese, o la più recente difficoltà ad individuare la Crimea sull’atlante da parte del grande pubblico, tanto dovrebbe stupire anche l’imbarazzo degli abitanti del Paese che da quasi duemila anni ospita il successore di Pietro nell’approcciarsi alla materia di fede.

Un quadro, quello tracciato dal Rapporto sull’analfabetismo religioso, in cui a fare una pessima figura (oltre che a destare una auspicabile e condivisibile attenzione) sono soprattutto i cosiddetti “cattolici praticanti”, o almeno quelli che come tali si concepiscono, definizione che in generale ha il tempo che trova.

La Bibbia appare diffusa, ma per lo più come oggetto d’arredamento (il 70 per cento degli italiani ne possiede almeno una copia, percentuale che sale all’86 fra coloro che si dichiarano cattolici praticanti, ma sono meno del 30> per cento coloro che ne hanno letto almeno qualche pagina); curiosa ignoranza sul “chi l’abbia scritta”: oltre un quarto degli intervistati la attribuisce a Mosè, un bonario 20 per cento a Gesù. Un poco ecumenico 15 per cento ritiene che la Bibbia “degli Ebrei” e quella “dei Cristiani” abbiamo nulla in comune, mentre un buon 27 per cento è convinto che Vangeli e Bibbia siano la stessa cosa.

Le percentuali scendono a numeri da élite in campo dottrinale, null’altro che l’ovvia conseguenza dei dati precedenti: se infatti solo il 30 per cento degli italiani conosce il nome di tutti e quattro gli evangelisti (salvo poi perdersi in fantasie apocrife e invenzioni letterarie, come il romanzesco “Priorato di Sion” inventato da Dan Brown nel suo Codice Da Vinci, che una nutrita parte di italiani ritiene cosa vera, storica e biblica), solo l’1 per cento conosce il Decalogo (e il 60 per cento degli intervistati non è in grado di citare più di uno dei Dieci Comandamenti, attribuendoli variamente a Mosé o a Cristo). Il più noto? «Non rubare». Non tutto è perduto, verrebbe insomma da dire. Più perduto è invece il primo comandamento («Non avrai altro Dio fuori di me»), significativamente il più obliato.

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«Man mano che, leggendo, dai numeri e dalle percentuali passavo alla interpretazione di quei dati, l’amarezza di cui parla l’Apocalisse ha preso anche me. Indipendentemente dal ruolo che una persona occupa, certe constatazioni non fanno piacere, o comunque non lasciano indifferenti», scrive Mons. Nunzio Galantino, Vescovo di Cassano all’Jonio e Segretario generale della CEI, commentando il volume. Il riferimento è a Ap 10,9 (Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”).

Una diffusa disinformazione che secondo Mons. Galantino deve chiamare all’azione, in particolare nell’ambito scolastico, in quello della produzione legislativa sulla libertà religiosa e nell’ambito della ricerca universitaria che attiene alle scienze religiose.

Non tutto è perduto, comunque, e ogni drammatizzazione fine a sé stessa apparirebbe soltanto «sterile». Impossibile, però, non individuare nei media, anche dell’informazione religiosa, una tendenza alla «contaminazione con gli altri generi giornalistici che risulta secolarizzante e di conseguenza minaccia di accrescere l’analfabetismo religioso o perlomeno di produrre un’alfabetizzazione mediocre», una «fede light», ferma ai livelli infantili (cosa ben diversa dal valore evangelico della “fanciullezza”) di un’esperienza religiosa «fatta di “narrazioni” su Gesù accompagnate da buoni sentimenti», «anche nel linguaggio e nelle immagini, che rivelano tutta la loro inadeguatezza e tutta la loro marginalità».

Viene da chiedersi come e quanto questi dati influiranno sul dibattito interno alla Chiesa, nel quale paiono fronteggiarsi, forse oggi più di ieri, politiche dell’adeguamento ad un “mondo che è cambiato” da un lato e spinte che mirano a cogliere con maggior coraggio la sfida educativa e di una nuova (ri)evangelizzazione, dall’altro.

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