La parrocchia dei migranti. Intervista a don Alberto Vitali, segretario del Sinodo di Milano

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Che la parrocchia di Santo Stefano Maggiore a Milano, a pochi passi dal Duomo e dall’Università degli Studi, non sia una parrocchia come le altre lo raccontano innanzitutto le bacheche degli avvisi.

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Le iniziative di incontro e di preghiera abbondano, le pubblicazioni di matrimonio sono accompagnate da foto con giovani volti sorridenti e le lingue predominanti sono il tagalog e lo spagnolo. Facendo un giro all’interno della basilica – le porte d’ingresso sono spalancate e già questo, da solo, è un ottimo segno – colpisce la singolare mescolanza di santi antichi e moderni, italiani e stranieri. Si scopre, così, che san Martiniano, che fondò la basilica nel 417, ben si accompagna al beato Óscar Romero, che sant’Ambrogio avrebbe potuto lasciarsi ispirare dal Divino Niño Jesus o dal Señor de los Milagros di una delle cappelle laterali e san Carlo Borromeo incantarsi di fronte all’immagine della Virgen de Guadalupe che campeggia presso l’altare. Un quadro della Santa Famiglia in fuga verso l’Egitto dice che anche questa è cattolicità, vale a dire Chiesa universale. “Parrocchia dei migranti” è la dicitura – destinazione e vocazione insieme – che accompagna l’intitolazione della chiesa. «Non soltanto un nome, ma l’erezione della parrocchia», spiega don Alberto Vitali, parroco di Santo Stefano, responsabile dell’Ufficio per la pastorale dei migranti dell’arcidiocesi di Milano e direttore diocesano Migrantes. La storia di Santo Stefano Maggiore è particolare e dice di una chiesa antica, per lunghi secoli parrocchia territoriale, pastoralmente “congelata” nel 1981 per mancanza di fedeli e chiusa al culto, negli anni successivi sede dell’Archivio storico diocesano e sostanzialmente abbandonata al deterioramento, rinata dal 2003 grazie all’interessamento dell’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, che la riapre al culto come cappellania dei migranti. È il successore, card. Angelo Scola, che nel 2015 la converte canonicamente in “parrocchia personale dei migranti”, destinandola innanzitutto alla cura spirituale delle comunità latinoamericane, filippine, rumene di rito latino, albanesi e di tutti i migranti che nell’arcidiocesi di Milano sono privi di una cappellania propria. «Se arrivasse un eschimese a Milano, farebbe parte di questa parrocchia», scherza don Alberto. La sensazione, però, è che sarebbe davvero così, e non soltanto per il diritto canonico.

Qual è la situazione dei migranti a Milano?

La conosce il Padreterno! Devo ammettere che non amo numeri e statistiche. Posso dire che la situazione è molto fluida, anche per quanto riguarda la partecipazione alla Messa. Alla domenica ci sono fra gli 800 e i 900 latinoamericani, ma il cambiamento nella composizione è evidente. Qualcuno dice che il 60% dei latinoamericani che frequentavano la parrocchia dieci anni fa oggi non ci viene più. Alcuni sono rientrati in patria, altri frequentano la parrocchia territoriale del luogo in cui vivono – soprattutto se i loro figli frequentano lì il catechismo – e altri ancora si sono stabilizzati, trovando lavoro e casa, spesso fuori Milano. Se vivono in provincia, comunque, è facile che continuino a venire qui per la Messa. Il totale delle presenze, però, non è cambiato rispetto agli ultimi dieci-quindici anni. Questo significa che c’è stata una sostituzione da parte di nuovi immigrati, che in questo momento stanno arrivando soprattutto dal Salvador. Le offerte raccolte durante le celebrazioni, in calo, e il contemporaneo aumento delle richieste di aiuto che giungono alla Caritas Ambrosiana sono il segno di importanti differenze economiche. La condizione degli ultimi arrivati è estremamente precaria.

Quali sono i rapporti fra le principali protagoniste dell’assistenza ai migranti nella diocesi?

Siamo strutturati in questi tre organismi: Caritas, Ufficio per la pastorale dei migranti e Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo. Migrantes non è presente nel vero senso della parola. Di tutto quanto riguarda la prima accoglienza e i bisogni concreti della persona – cibo, diritti, documenti – si occupa Caritas Ambrosiana; dell’accompagnamento pastorale dei migranti cattolici si occupa la Pastorale dei migranti; all’accompagnamento spirituale dei migranti cristiani non cattolici o di altra religione pensa l’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo. Questa divisione – che è reale – non è, comunque, rigida. Nel mio caso, ad esempio, in quanto responsabile dell’Ufficio per la pastorale dei migranti non mi occupo della carità, ma ovviamente in quanto parroco di Santo Stefano sì. La collaborazione, anche con il SAI (Servizio Accoglienza Immigrati di Caritas Ambrosiana, NdR), è molto stretta, avvantaggiata anche dal fatto che la sede della Caritas è proprio qui dietro.

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Prima si diceva “parrocchia dei migranti”: che cosa significa concretamente questa qualifica nella vita della parrocchia?

Innanzitutto questa è una chiesa antichissima. Quest’anno abbiamo celebrato il 1600esimo anniversario della sua fondazione. Significa che ha alle spalle una storia enorme. Qui sono passati Carlo Borromeo, Federico Borromeo, Maddalena di Canossa – che qui ha fondato la sua terza casa per ragazze povere e qui, sull’altare di santo Stefano, ha ricevuto il primo riconoscimento della congregazione canossiana da parte della Chiesa. Qui Antonio Rosmini veniva a fare discernimento vocazionale ai giovani. Ciò che mi interessa è aiutare i migranti a comprendere di essere parte di una tradizione e che la nostra fede viene da dei testimoni che ce l’hanno passata e che a loro volta ci stimolano a passarla alle generazioni che verranno dopo di noi. È un progetto pastorale e insieme spirituale. Ogni gruppo etnico ha ricevuto la fede attraverso propri testimoni e secondo una propria tradizione. Questo, concretamente, per noi vuol dire anche recuperare la chiesa di Santo Stefano. Quando sono diventato parroco era aperta solo la navata centrale, mentre gli altari laterali erano bloccati. C’era un po’ di tutto. Sei mesi di lavoro serio da parte dei migranti – ma veramente serio – ci ha permesso di riaprire la chiesa e adesso poco alla volta la stiamo restaurando.

Anche negli arredi e nelle opere d’arte conservate qui in Santo Stefano la compenetrazione fra tradizioni diverse è evidente. Stavo osservando una statua di Gesù Bambino…

(ride) Adesso è il Divino Niño. In realtà l’hanno trovata qui. Sarebbe il Gesù Bambino di Praga, al quale è stata aggiunta una fascia sul petto… A livello simbolico dice quello che vorremmo fare a livello pastorale. È un tema che sta interessando molto anche l’Ufficio catechistico diocesano, soprattutto per la catechesi ai bambini che vengono da altre parti del mondo. Quella che stiamo vivendo è un’esperienza della cattolicità della Chiesa. Credo che siamo la prima generazione dopo quella apostolica a fare davvero esperienza della cattolicità della Chiesa. Dopo gli apostoli la Chiesa si è diffusa in tutto il mondo, ma ognuno a casa propria. Era segno della comunione, ma a distanza. Oggi, con la globalizzazione, ci si sta mischiando. Questo vuol dire che, in maniera saggia, senza fare miscugli, possiamo condividere le nostre tradizioni. Per i peruviani, ad esempio, può essere la processione del Señor de los Milagros, l’ultima domenica di ottobre; per i filippini Simbáng Gabi, la novena per il Natale che celebriamo in Duomo, oppure Santacruzan, un’altra processione che si tiene l’ultima domenica di maggio; per i salvadoregni la festa del Divino Salvador del Mundo, il giorno della Trasfigurazione di Gesù, oltre al ricordo di Romero e degli altri martiri. Da parte nostra, stiamo cercando di farli entrare in qualche modo nella “ambrosianità”, nel modo di vivere la fede secondo la tradizione ambrosiana, trasmettendo alle diverse comunità gli eventi forti della Chiesa di Milano.

Non assimilazione, quindi, ma scambio.

C’è un filone di pensiero che sostiene che i migranti vanno inseriti direttamente nelle parrocchie, perché così si integrano prima. Altri, fra i quali io, sostengono le cappellanie etniche. Non ne faccio una questione accademica. Bisogna guardare in faccia il migrante in carne ed ossa. Il migrante medio arriva da solo, sempre meno incontra il contatto con cui è arrivato. Spesso arriva da me con il trolley, cercando un posto dove dormire dopo una prima notte passata alla Stazione Centrale. Scatta la solidarietà e il posto letto di solito si trova, ma magari cambia due o tre volte. Poi inizia la ricerca di un posto di lavoro: due ore di sostituzione per le pulizie qui, due ore a sostituire una badante là. E questo può andare avanti anche due anni. Ad ogni cambio di lavoro, spesso cambia anche il posto in cui vive. Naturalmente è tutto in nero, perché i flussi sono bloccati dal 2009. Quando raggiunge un minimo di stabilità economica richiama la famiglia, che però lo seguirà nei diversi trasferimenti. Questo significa cambiare ogni volta vicini di casa, compagni di scuola e colleghi di lavoro. Il grande viaggio è solo la prima tappa della migrazione. La migrazione, poi, continua qui. Se tutto va bene, la prima generazione riesce a capire le regole e a rispettarle, ma mantiene la propria lettura della realtà. La seconda generazione inizia il passaggio e con la terza ci siamo. Dobbiamo dare loro stabilità almeno nella comunità ecclesiale, qualcosa a cui ancorarsi. C’è però da considerare che la realtà ecclesiale della città non è più legata alla parrocchia in cui si vive, neanche per i milanesi: le coppie di giovani sposi si spostano in altri quartieri rispetto a quelli in cui sono cresciuti, i figli spesso frequentano la scuola e il catechismo nel quartiere dei nonni, che li accudiscono mentre i genitori sono al lavoro. E tutto questo senza considerare l’adesione a gruppi e movimenti. Perché dovremmo chiedere ai migranti di fare quello che non fanno più neanche gli italiani? Quando il card. Scola chiuse la visita pastorale ai migranti, fece un’osservazione illuminante: non enfatizzare l’alternativa parrocchia-cappellania dei migranti, perché si può essere integrati anche partecipando sempre alla Messa in Santo Stefano e fuori frequentare movimenti e associazioni nelle quali sono presenti anche gli italiani.

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L’appartenenza ai movimenti ecclesiali è un tratto importante della spiritualità dei migranti latinoamericani?

Ciò che mi preoccupa è la diffusione dei movimenti di taglio carismatico fra i cattolici latinoamericani. Se siamo in grado di gestirli, sono una cosa positiva. In questa parrocchia, ad esempio, il movimento dei Misioneros de Jesus è stato il nucleo attorno al quale, poco alla volta, hanno coagulato i giovani. Di fatto, è nata così, in maniera autonoma, la pastorale giovanile della parrocchia. Questo ha messo in discussione anche me, perché il mio stile è e continua ad essere tutto meno che carismatico. Continua, però, a preoccuparmi il fatto che molti fedeli, in America Latina e qui, seguano predicatori che la Chiesa latinoamericana non vede di buon occhio, ma che lascia fare. È un peccato, perché alle radici della spiritualità latinoamericana ci sono martiri straordinari, non dico delle origini della Chiesa ma di vent’anni fa, eppure c’è il rischio di perdersi dietro a venditori di fumo.

Martiri come Óscar Romero. Qui in chiesa c’è un suo quadro. Cosa ci insegna la testimonianza di questo arcivescovo salvadoregno in tema di migranti?

Per quanto riguarda i salvadoregni, a loro ricordo sempre che la loro fede è stata innaffiata con il sangue dei martiri, Romero, ma non solo lui. Più in generale, credo che Romero insegni a leggere la realtà concreta delle persone – persone in carne ed ossa – alla luce del Vangelo. Che il nostro temperamento, il nostro carattere, la nostra spiritualità non possono essere una scusa per non assumere la realtà per quello che è, anche in maniera profetica. Romero, se avesse assecondato il proprio temperamento, se ne sarebbe rimasto chiuso in chiesa a fare funzioni devozionali. Non era nel suo DNA fare il profeta, e tantomeno il martire. Però si è lasciato trasformare dalla Parola, ha permesso che la Parola lo obbligasse a vedere la realtà e a prendere posizione, perché non si poteva fare diversamente. Lo stesso ci insegna rispetto ai migranti: guardare lucidamente la situazione di queste persone e che non possiamo non denunciare. Romero, però, ci insegna anche la prudenza. Se è arrivato a gridare, è perché questo, in quel momento, non andava contro la prudenza. Sono contrario ad atteggiamenti gridati che si dicono a favore dei migranti, ma che non si capisce se davvero servono più emigranti o a chi grida. Sono estremamente polemico anche nei confronti di un certo utilizzo della questione migranti da parte della politica, alcune volte in buona fede. Prendiamo, ad esempio, la vicenda dello ius soli. A Milano è stata fatta una manifestazione. Come Pastorale dei migranti e Caritas non abbiamo aderito, scontrandoci con tutti i nostri amici. Qualcuno ci ha accusati di essere troppo “istituzionali”. Ma se i migranti di una cosa non hanno bisogno è di diventare motivo di contenzioso politico. Già lo sono. Lo ius soli, io credo, serve più all’Italia che non ai bambini, perché un Paese civile non può permettersi di non avere una legge che riconosca la cittadinanza a chi nasce. Questo ci squalifica nel panorama delle nazioni. Mi spingo a dire, però, che i bambini più della cittadinanza hanno bisogno che i loro padri abbiano un permesso di soggiorno per poter lavorare in maniera regolare e garantirgli delle condizioni migliori di vita. In Italia i flussi sono chiusi dal 2009. Mi pare più urgente la questione dei flussi che non quella dello ius soli. Il rischio è che lo ius soli venga percepito come un fatto marcatamente di sinistra e che venga esasperato a tal punto da finire bocciato da un referendum. Sarebbe un danno enorme fatto ai migranti, perché vorrebbe dire che non è la politica, ma il popolo italiano a non volerli.

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Eppure non mancano testimonianze in senso contrario. Come è già accaduto con i suoi predecessori, gli appelli di Francesco a favore di una maggiore sensibilità nei confronti dei migranti e della coerenza con il Vangelo non si contano. Nota un cambiamento in tema di migrazioni tra i fedeli ambrosiani?

La parte più “impegnata” della Chiesa ambrosiana in papa Francesco non scopre una novità, ma trova una grande conferma. E questa è una cosa non da poco. La cosa più interessante di papa Francesco è che lui stesso ha dovuto migrare dall’Argentina a Roma e sta obbligando la Chiesa a guardare sé stessa da una prospettiva diversa. Le cose che dice Francesco le hanno dette anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma la prospettiva era ancora europea, addirittura eurocentrica.

Anche la Chiesa ambrosiana è depositaria di una lunga tradizione di attenzione per i migranti, interni prima, esteri poi. Cosa si aspetta dal nuovo arcivescovo Delpini?

La Chiesa di Milano ha una grossa fortuna: i suoi arcivescovi. Dal card. Martini fino a Scola sul tema dei migranti tutti si sono spesi tanto. Martini è colui che ha fondato la pastorale dei migranti nella diocesi, sia l’ufficio di Curia che la cappellania dei migranti. Il card. Tettamanzi è quello che gli ha dato questa chiesa e li ha sempre appoggiati. Il card. Scola ha sviluppato tutto il tema del meticciato. Se posso dire una cosa sul card. Scola è che mi sono sempre sentito appoggiato. Anche i preti ambrosiani per me sono stati una gioiosa sorpresa: li trovo estremamente interessati alla questione dei migranti. E lo stesso direi anche dei laici impegnati nelle parrocchie. Il dramma arriva, invece, a livello dei cattolici “della domenica”. Basti pensare che alcuni nostri arcivescovi sono stati tacciati di essere “comunisti”… Rispetto a Delpini, è ancora tutto da vedere e da scoprire. È veramente nella linea di Francesco in quanto allo stile personale. Probabilmente il trasloco (in arcivescovado, dopo l’insediamento di inizio settembre, NdR) lo farà con due giri della sua macchina. È una persona che ha vissuto, senza sbandierarla, l’essenzialità.

La Fondazione Migrantes ha un nuovo direttore generale, don Giovanni De Robertis. Un augurio e una speranza per Milano?

Innanzitutto, da parte dell’Ufficio per la pastorale dei migranti di Milano c’è una grande disponibilità a collaborare. Ciò che chiedo a lui – però di certo lo fa già, non ha bisogno che glielo dica io – è di mettersi continuamente in discussione, la capacità di non buttare via le grandi teorie e i grandi progetti, ma di guardare ai migranti in carne ed ossa. Lo so per esperienza personale. Il parroco di Santo Stefano potrebbe benissimo non essere il responsabile della pastorale dei migranti – avrebbe, anzi, più tempo per la parrocchia – ma sarebbe un guaio se il responsabile della pastorale dei migranti non fosse parroco di Santo Stefano o di qualche altra cappellania. Il rischio sarebbe, infatti, quello di perdere il contatto con la realtà, con i migranti. Se come Ufficio prendiamo una cantonata nella pastorale, qui in parrocchia me lo dicono subito.

[Simone M. Varisco, Migranti-press, gennaio 2018]

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