Don Giovanni De Robertis
Simone M. Varisco
Mentre a pochi chilometri di distanza, nel cuore di Milano, è ancora in corso il Sinodo minore diocesano “Chiesa dalle genti”, qui con la cattolicità della Chiesa ambrosiana ci si siede a tavola. E tra un caffè e la Santa Messa celebrata in una roulotte, si legano passato, presente e futuro della pastorale dei rom e dei sinti. Cattolici, “genti” anche loro della medesima Chiesa al pari di latinoamericani e ucraini, gruppi spesso più in vista. Eppure una presenza plurisecolare, non solo a Milano, riconosciuta come tale anche dal 47° Sinodo diocesano inaugurato alla metà degli anni Novanta dal card. Carlo Maria Martini. La Chiesa è «chiamata ad annunciare loro il Vangelo della salvezza», si scriveva oltre 20 anni fa, attraverso una pastorale specifica che sia consapevole di come «Rom-Sinti-Kaolie, pur essendo in larga parte cittadini italiani, costituiscono un gruppo etnico con una propria cultura e lingua».
Specificità che ne fanno non soltanto destinatari particolari della pastorale, ma anche membri attivi della Chiesa, con ricchezze e apporti del tutto peculiari. Un impegno che oggi, complici «i nodi di incomprensione tra i nomadi e le comunità locali nel cui territorio i nomadi transitano frequentemente oppure si sedentarizzano», rischia di essere ritenuta inattuale. «L’esperienza in questo è tutto, non bastano i libri e gli studi», spiega invece mons. Mario Riboldi, autentico pioniere della pastorale fra i rom e i sinti. «C’è sempre da imparare, non si è mai “arrivati”». Una lezione importante da chi ha contribuito a scrivere, vivendola, la storia della pastorale dei nomadi.
Ma come nasce una passione pastorale lunga una vita? «È un dono, non è solo un impegno. È un regalo speciale che viene fatto ad alcuni: amare gente che tutti respingono. Io ero parroco. Mi ero appena confessato e ho visto questa gente, giostrai… Mi sono chiesto chi si interessasse di loro. Sono entrato “nel giro” e in poco tempo sono stato assorbito totalmente». Un “innamoramento” dal quale allontanarsi è impossibile. «Adesso sono anziano, è giusto far lavorare i giovani. Ma continuo a vivere qui, fra i sinti. L’importante è andare sempre avanti», sottolinea mons. Riboldi.
E in oltre 60 anni di lavoro pastorale, di strada mons. Riboldi ne ha fatta molta. A cominciare dall’ordinazione sacerdotale, ricevuta dal card. Schuster, arcivescovo di Milano. «Dopo di noi, l’anno successivo ha ordinato ancora una classe, poi è morto, in agosto». È il 1953 e poco dopo essere diventato prete, per mons. Riboldi ha inizio la missione fra i rom e sinti, con il pieno appoggio di mons. Giovanni Battista Montini, successore di Schuster a Milano e futuro Paolo VI. «Un legame che, proprio grazie al mio impegno fra i rom e i sinti, divenne presto anche di amicizia. I compagni si meravigliavano della familiarità con la quale mi riceveva», scherza mons. Riboldi. «Gli “zingari” erano per lui una passione personale. Era fatto così». Un amore pastorale culminato nel grande incontro con i popoli romaní a Pomezia, poco fuori Roma, nel 1965, preparato insieme a don Bruno Nicolini, fondatore dell’Opera Nomadi.
Un’esperienza proseguita, in forma diversa, durante l’episcopato del card. Giovanni Colombo. «Un tipo diverso, molto concentrato sulle parrocchie», ricorda mons. Riboldi. «E anch’io ero parroco! Una piccola parrocchia che mi permetteva di continuare ad interessarmi anche di altri che “non c’entravano”. Celebravo la Messa in parrocchia il martedì mattina e il mercoledì sera, il resto dei giorni dormivo fuori, ospite di rom e sinti, spesso in zona San Siro, a Milano». Arrivando, alla fine, a convincere il card. Colombo a farlo partire. È il 1971 e la parrocchia di mons. Riboldi, circondata com’è di carovane, assomiglia ormai ad un campo nomadi: rom e sinti che intendono sposarsi, far battezzare i figli proprio da lui o semplicemente in cerca di una parola di conforto o di consiglio. «Ma bisogna rispettare e capire i superiori. E fidarsi», precisa mons. Riboldi, che da allora ottiene l’incarico di occuparsi dei nomadi presenti sul territorio della diocesi.
Un piccolo gruppo di operatori, allora, fra i quali il servo di Dio don Dino Torreggiani, fondatore dell’Istituto dei Servi della Chiesa e dell’Opera per l’assistenza ai nomadi in Italia (OASNI) e indiscusso pioniere della pastorale dei romaní e dello spettacolo viaggiante. Con lui qualche divergenza di vedute sui metodi della pastorale, ma anche la condivisione dei medesimi obiettivi. «Quando ha saputo della mia attività è venuto lui da me. Al tempo non eravamo in molti ad occuparci dei nomadi, tre o quattro, e ci si conosceva tutti», ricorda mons. Riboldi.
Un legame che si ripropone con il card. Carlo Maria Martini. «Ha apprezzato da subito la mia attività», racconta mons. Riboldi. «A Roma aveva già conosciuto don Dino Torreggiani e sapeva quali erano le necessità di questa gente». È il Cardinale ad incoraggiarlo a studiare la vita di Zefirino. «Gli ho mostrato un libretto sulla vita di Zefirino scritto da padre Fandos, uno spagnolo. “Datti da fare!”, mi ha detto Martini. E così siamo partiti per la Spagna, padre Luigi ed io, a fare ricerche: vedere, sentire…». A mons. Mario Riboldi e a padre Luigi Peraboni si deve l’iniziativa del processo di canonizzazione di Ceferino Giménez Malla, detto “El Pelé”, gitano spagnolo fucilato nell’estate del 1936 in odio alla fede e proclamato beato il 4 maggio 1997 da Giovanni Paolo II.
Un lavoro complesso, in una Spagna che ancora non aveva superato le ferite della guerra civile, eppure il simbolo di un senso di appartenenza in grado di superare ogni confine politico, anche all’interno della Chiesa. «Alla beatificazione di Zefirino non hanno partecipato gli spagnoli perché il gitano era spagnolo, ma i gitani in quanto tali: dalla Spagna, sì, ma anche dalla Polonia, dalla Slovacchia e dal resto del mondo. C’è, dopo millenni trascorsi a girovagare fra nazioni diverse, ancora questo senso di identità». E a quando la canonizzazione di Zefirino? «Servirebbe un miracolo, ma oggi i sinti pregano tutti Padre Pio!», ride mons. Riboldi.
Quale futuro attenderci? La situazione appare complessa, anche nella prospettiva di nuovi sgomberi. «La forza degli zingari sono i figli. E poi sono un popolo, e come in ogni popolo c’è di tutto: c’è chi sbaglia e chi è all’altezza di guidare gli altri, anche a livello nazionale. Ci sono giovani sinti laureati, è importante… Non solo in Italia: penso soprattutto alla Francia. Si cammina, passo passo».
Un caffè e una Messa, Migranti-press, n. 7-8 2018.
Nella foto: Vaticano, 28 agosto 1975. Paolo VI riceve in udienza i «pellegrini nomadi d’Europa”, giunti a Roma per il Giubileo. Un momento dell’udienza. Archivio Fondazione Migrantes.
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