La lingua del mare: il Principessa Mafalda e Lampedusa. 86 anni fa come oggi.

Leggi in 6 minuti

Un’epoca che può forse sembrarci lontana, ma che la crisi economica ha drammaticamente ripresentato alla mente di molti, non solo nei ricordi, ma sempre più spesso nelle scelte di chi – per lo più giovani – oggi parte alla ricerca di nuove, vecchie, opportunità fuori dal nostro Paese. È una lezione di come una tragedia di quasi 90 anni fa può ancora dirci qualcosa del nostro tempo.


Era il 25 ottobre del 1927 quando il Principessa Mafalda, piroscafo italiano partito da Genova l’11 ottobre e diretto a Buenos Aires, naufragava ad ottanta miglia dalle coste brasiliane, fra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro, con il suo carico di emigranti italiani. Nei nomi delle oltre 300 vittime – più di 650 secondo la stampa sudamericana – potevano leggersi tutte le speranze di un’Italia in fuga dalla povertà. Nomi che sembrano raccontarci una storia diversa dai Rahwa, Haile, Aziza delle mille Lampedusa dei nostri giorni, ma che nei fatti e nella comune umanità non è poi così dissimile.

Fiore all’occhiello della navigazione italiana, sul quale avevano viaggiato Toscanini e Pirandello, pensare al «Mafalda» come ad una carretta del mare suona inverosimile. Eppure in quel 1927, al suo ultimo viaggio prima di uno smantellamento rimandato per anni, l’epoca d’oro di questa grande nave era ormai un lontano ricordo, tenuto vivo soltanto da allestimenti invecchiati che quasi vent’anni prima avevano destato l’ammirazione dell’Europa. «Trattamento e servizio tipo hotel di lusso», lo definivano alcuni dei manifesti della propaganda, commerciale e soprattutto politica. Un trattamento riservato ai passeggeri delle prime classi. Facile immaginare come degli oltre mille emigranti imbarcati in quell’ottobre nessuno poté beneficiare dei saloni delle feste, dei tappeti preziosi, dei gobelins e dei quadri d’autore. A loro erano riservati gli immensi stanzoni senza decori e i corridoi delle stive.

Leggi anche:  Cazzate e casini. La via dell’emancipazione?

Una decadenza e un disastro obliati e taciuti, quelli del «Mafalda». Troppo grande il danno d’immagine per un Paese che stava facendo in quegli anni dell’inaffondabilità – navale e nazionale – il centro della propaganda di Stato. Troppo importante la rotta fra Italia e Sudamerica, nella quale nessun’altra nave in quel momento avrebbe potuto sostituire la vecchia “principessa”. Troppo importante che l’Argentina acconsentisse all’ennesimo carico di speranze italiane, insieme agli ottanta chili d’oro che il governo italiano versava al Paese sudamericano per agevolare l’accoglienza degli emigranti italiani. Troppo importante per ascoltare i tanti, troppi segnali del progressivo cedimento strutturale della nave.

Inclinato da giorni su un fianco, scosso da forti vibrazioni e dai singhiozzi del motore, il 25 ottobre la fiancata del «Mafalda» sfiorava ormai la superficie dell’acqua. La richiesta del comandante Simone Gulì – esperto lupo di mare siciliano – di avere una nave sostitutiva non era stata accolta dalla società armatrice. Proseguire. Con un ultimo scossone, alle cinque di quella sera, ora dello svago e delle danze in prima classe, lo scafo del nave venne squarciato dallo sfilarsi disastroso di una delle eliche. In breve gli ambienti del piroscafo, non protetti dalle porte stagne mal funzionanti, vennero invasi dalla violenza dell’acqua. Per ore i marconisti ripeterono la cantilena di un disperato SOS a telegrafi ammutoliti dal blackout di bordo. I ponti, trasfigurati dalla calca terrorizzata, divennero per decine di passeggeri trappole mortali. Molti altri caddero in mare o rimasero vittima di scialuppe rese malferme dall’incuria. Altri, più fortunati, vennero raccolti dalle lance partite da alcune navi mercantili nei paraggi, accorse a prestare un umano, confuso soccorso. Poco dopo le 22, dopo cinque ore di agonia, il “Titanic italiano” si inabissò, accompagnato sul fondo dell’oceano dalle note della Marcia Reale e in patria da un seguito di retorica nazionalista mirante a minimizzare l’impatto della tragedia sulla popolazione.

Leggi anche:  Singh come Masslo. Morire di ipocrisia in un’Italia catatonica

Passarono decenni prima che qualcuno scegliesse di indagare più a fondo in quella disgrazia annunciata, tanto prevedibile da sembrare quasi ricercata, nel disprezzo delle più elementari norme di sicurezza marittima e di rispetto della vita. Ma, allora come oggi, il quadro economico che si delineò attorno a questo disastro sembra spiegare l’interessato ottimismo sfoggiato dalle autorità e la coda opportunista di retorica politica e polemiche seguita alla tragedia. Ieri come oggi.

Ad inizio Novecento gli emigranti ad attraversare l’Atlantico erano 150mila. Ogni anno. Il piroscafo traboccava di passeggeri ad ogni viaggio, la rotta era fra le più richieste e redditizie. Trecento lire a biglietto, baccalà e gallette per i più poveri, pasti all’aperto per chi non poteva pagare un sovrapprezzo per un tavolo al coperto. Un carico di umanità nascosta, soprattutto alla sensibilità della prima classe. Un affare di milioni di lire del tempo per gli armatori. Un profitto che fece presto passare in secondo piano la sicurezza e la vita degli uomini, donne e bambini che affollavano ogni più angusto ambiente della nave.

Eppure alle spalle del «Principessa Mafalda» non c’erano organizzazioni criminali senza scrupoli, ma alcune fra le compagnie di navigazione italiane più blasonate del tempo, il Lloyd Italiano prima, la Navigazione Generale Italiana poi. Ma anche in quel caso, per il salvataggio di centinaia di vite, valse più la legge del mare, legge non approvata, non discussa, non contestata ad intermittenza, ma vera legge perché fatta per l’uomo, morale e ragionevole, solidale, fondata sulla vera giustizia. La stessa che probabilmente spinse il comandante Gulì a dirigere le operazioni di evacuazione fino a farsi seppellire con la nave in un oceano di acqua e musica d’orchestra.

Leggi anche:  Cattivi modelli e falsi profeti

Un ultimo tratto, quasi sorprendente, ci fa percepire questa tragedia ancora più attuale: fra le centinaia di emigranti imbarcati, in gran parte liguri, veneti e piemontesi, ve ne erano anche di siriani. Popoli in viaggio, sempre gli stessi, solo talvolta a parti invertite. Almeno per un po’.

Restiamo in contatto

Iscriviti alla newsletter per aggiornamenti sui nuovi contenuti

© Vuoi riprodurre integralmente un articolo? Scrivimi.

Sostieni Caffestoria.it


Lascia un commento

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.