Europa e vocazione cristiana. Fallica: «Le radici sono generose: non si limitano a nutrire loro stesse»

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Europa e Benedetto da Norcia. Storia di radici e futuro di vocazione. Ma anche di missione dei laici, nella Chiesa e negli orizzonti della politica. «A creare comunione è ciò che ci differenzia, non ciò che ci uniforma. Lo Spirito agisce trasformando i luoghi della competizione nei luoghi della collaborazione». Intervista all’abate ordinario di Montecassino, P. Ab. D. Antonio Luca Fallica.


Il 9 maggio ricorre la Giornata dell’Europa, 73simo anniversario della Dichiarazione dell’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman, fondamento dei nuovi ideali europei dopo la tragedia di una guerra combattuta fra nazioni di uno stesso continente, in seguito divenuta un conflitto mondiale. Una luce insperata – anche nel presente –, sostenuta da una fede personale: di Robert Schuman è in corso dal 1990 la causa di beatificazione, che ha condotto nel 2021 a proclamare Venerabile il politico francese, riconoscendone le virtù eroiche.

Che sia il caso, una volta di più, di riandare alle radici primariamente cristiane dell’Europa? La storia è lì a confermarlo, tanto più che si tratta di un attributo tutt’altro che astratto, bensì incarnato in personalità di impegno privato e pubblico. Su tutte, Schuman, Adenauer e De Gasperi. Sussiste, certo il rischio – mai del tutto scongiurato – di uno statico ripiegamento sul passato.

Non sarebbe, allora, il caso di parlare di una vocazione (anche) cristiana dell’Europa? Radicata nella propria storia ma protesa verso il futuro, ravveduta dai «terribili cammini sbagliati» del passato e libera da ogni restringimento ideologico e abuso imperialistico, come ebbe a dire Benedetto XVI in occasione del viaggio apostolico in Austria nel 2007.

Lontano, viene da dire, dallo scenario presente, che dice più di unione e disunione di interessi dei singoli, piuttosto che di sincera comunità e comunione. Ma è certo complicato trovare senso e orizzonte per la propria esistenza ostinandosi nel rigetto di ogni fede religiosa.

Abate Montecassino Antonio Luca Fallica

Ne parlo con il P. Ab. D. Antonio Luca Fallica, dal gennaio scorso abate ordinario di Montecassino e per 12 anni priore del Monastero della Santissima Trinità di Dumenza (Varese).

Le radici cristiane dell’Europa non sono mai state un attributo astratto, ma incarnato in personalità di impegno privato e pubblico. Negli scorsi decenni anche in Schuman, Adenauer, De Gasperi. Come riconoscere, oggi, quei fondamenti?

Occorre riconoscerli anzitutto non perdendo la memoria storica di ciò che personalità, come quelle da lei citate, hanno realizzato, sognato, approfondito con una seria riflessione e con un’altrettanta vivace passione umana e politica. Nello stesso tempo, questa memoria non può rimanere nostalgica, tendente cioè a rinchiuderci nel passato. Deve diventare profetica, capace di sostenere un impegno nel presente e di proiettarlo verso un futuro diverso. La radice rimane nascosta sottoterra e se ne conosce l’importanza dai frutti nuovi che consente all’albero di produrre. Le radici non si limitano a nutrirlo, lo rendono fecondo.

Pertanto, riconoscere questi fondamenti e considerarli come radici deve significare non rinchiudersi sottoterra con loro, ma diventare capaci di fruttificare in modo nuovo e originale, incarnato nel nostro tempo, grazie a quel nutrimento che le radici stesse ci offrono. Le radici sono generose: non si limitano a nutrire loro stesse, né intendono riprodursi o replicarsi. Ciò che desiderano è che l’albero sia in buona salute, diventi fecondo e carico di nuova vita, rigogliosa, bella e buona.

Oltre che di radici si potrebbe dire anche, e forse soprattutto, di una vocazione cristiana dell’Europa, orientata verso il futuro. Magari a partire da quell’originale senso di “comunità” che appartiene all’orizzonte benedettino.

San Benedetto è vissuto in un periodo che ha delle analogie con il nostro, senza con questo forzare gli accostamenti, che sono sempre ardui e pericolosi tra periodi storici così distanti. È pur vero, tuttavia, che per molti aspetti anche quello in cui ha vissuto il Santo di Norcia è stato un cambiamento d’epoca, più che un’epoca di cambiamenti, per riprendere un’immagine cara a papa Francesco.

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La dissoluzione dell’Impero Romano e l’arrivo di nuovi popoli ha rappresentato una sfida inedita, tesa a generare un nuovo modello di comunità. In questa costruzione, il monachesimo benedettino, nelle molteplici forme che sono state via via generate da una radice comune, ha giocato un ruolo significativo.

L’idea che Benedetto propone, e che anche oggi può e deve essere riproposta, guarda a una comunità che sappia edificarsi a partire dalle differenze. Il termine communitas non ha a che vedere con ciò che è comune, ma con l’idea di un cum-munus, vale a dire di un dono (munus) condiviso. E il dono è tale, e può davvero essere condiviso tra più soggetti, quando sussiste una diversità. Detto banalmente, se ciò che io ho lo hai già anche tu, non potremmo scambiarci nulla tra di noi. Non sarebbe possibile alcun dono, e dunque neppure alcuna comunicazione, o comunità, o comunione.

Paradossalmente – ma è un paradosso tipicamente cristiano e prima ancora umano – a creare comunione è ciò che ci differenzia, non ciò che ci uniforma, purché ogni peculiarità sia vissuta nella logica della condivisione, non della gelosia, dell’invidia, o peggio della competizione e della conflittualità. Anche il termine “competizione” è interessante, se lo cogliamo nel suo significato etimologico. A me sorprende che il termine “competenza” condivida la stessa radice etimologica del termine “competizione” . È un petere cum, un cercare insieme, dove però questo “insieme” è sempre al bivio di un’alternativa: o la collaborazione o la competizione.

Lo Spirito agisce trasformando i luoghi della competizione nei luoghi della collaborazione fraterna. Questo chiede a ciascuno l’attitudine spirituale di riconoscere il dono che c’è nell’altro e di metterlo al servizio di un bene comune. Mi pare che san Benedetto abbia saputo farlo, come pure uomini quali Adenauer, Schuman, De Gasperi, che hanno trasformato la terribile “competizione” della Seconda guerra mondiale in una “competenza”, per cercare insieme di edificare l’Europa come casa comune.

Eppure molta della spinta ideale dell’Europa sembra perduta. Che all’Unione, per così dire, manchi un’anima? In questo caso, ci sarebbe da fare autocritica anche in quanto cristiani?

Da più parti viene sottolineato, a mio parere con ragione, che le logiche economiche hanno prevalso su quelle più ideali, ma non ideologiche. Forse, come cristiani, l’autocritica che dovremmo fare non è tanto quella di non aver saputo dare un’anima all’Europa, ma di non esserne stati lievito. Preferisco l’immagine del lievito nella massa a quella dell’anima, perché più discreta e meno invasiva o arrogante. Non dobbiamo essere l’anima. Dobbiamo riconoscere che l’Europa ha anime diverse, e non possiamo, come credenti in Gesù, arrogarcene una in modo esclusivo.

Preferisco l’immagine evangelica del lievito che fa fermentare in modo positivo la farina. Oppure l’altra immagine, sempre evangelica, del sale della terra e della luce del mondo. Il sale da solo non si mangia, ma fa risaltare il gusto del cibo, anzi, di ogni cibo, anche dei più diversi tra loro. Analogamente, la luce non la si vede in se stessa, ma consente di vedere tutto ciò che esiste, in particolare il bello, il vero, il buono.

I cristiani devono maggiormente assumere questa responsabilità ed essere sale e luce perché possano risaltare, divenire visibili e anche “gustabili”, “assaporabili”, i valori già presenti nella realtà. La luce, peraltro, deve consentire di discernere pure i disvalori, permettendo di setacciare, affinché il buon grano rimanga e la pula venga scartata.

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C’è il rischio che, in Europa così come in altri contesti, la religione possa essere sfigurata dall’ideologia. Cosa ci dice, in proposito, l’esperienza di Benedetto da Norcia?

San Benedetto e i suoi monaci sono diventati famosi a partire da un motto, che di per sé nella Regola non c’è, ma che ha comunque sintetizzato bene l’esperienza monastica benedettina: ora et labora. Noi monaci amiamo aggiungere un terzo imperativo: lege, “leggi”, perché anche la lettura, anzitutto della Parola di Dio nella modalità della lectio divina, per poi ampliarsi ad altre forme di studio e di sapienza, è un altro cardine importante della nostra esperienza umana e credente.

Direi però che la cosa più importante di questo motto non sono tanto i verbi che lo compongono – e potrei aggiungerne altri – ma l’et che li congiunge, permettendo di declinarli insieme. Benedetto non contrappone, non separa, ma armonizza. Più che mura, costruisce ponti. Non solo la preghiera, ma anche il lavoro; non solo la vita fraterna e comunitaria, ma anche il respiro della solitudine; non solo il servizio di Dio, ma anche il servizio dell’uomo; non solo l’obbedienza all’abate, ma anche tra fratelli. Proprio questo atteggiamento che, alimentato dall’et et vince la tentazione dell’aut aut, mi pare sia un grande antidoto per le tentazioni ideologiche, che invece assolutizzano, escludono, contrappongono.

Un altro grande antidoto, tipico dell’esperienza benedettina, è la discretio, la capacità di discernere, e quindi di adattare il valore al contesto storico nel quale è chiamato a incarnarsi. L’ideologia pretende sempre di farti indossare una camicia o troppo stretta o troppo larga, mentre il discernimento prende le misure, adatta, modella, adegua.

Schuman, De Gasperi, Europa

Sull’esempio di Benedetto, quale ruolo possono assumere oggi, concretamente, i cristiani nella realtà europea? Non voglio dire soltanto gli uomini e le donne della politica, ma ogni cittadino che si professi cristiano.

A questa domanda in parte ho già risposto, parlando della necessità di essere anche nel nostro tempo “sale e luce”. Guardando alla testimonianza peculiare di san Benedetto, che vuole che i suoi monaci siano anzitutto cercatori di Dio, penso che i credenti in Gesù Cristo debbano continuare a essere, come li definisce san Luca negli Atti degli Apostoli, uomini e donne della Via, gente che va per strada, in compagnia delle persone del nostro tempo, capaci di mantenere aperti gli itinerari della ricerca, soprattutto del cercare insieme il bene comune, la verità, la giustizia, la pace.

Paolo VI, nella lettera apostolica Pacis nuntius, con la quale nel 1964 proclamava san Benedetto patrono principale dell’intera Europa, affermava che «al crollare dell’Impero Romano, ormai esausto, mentre alcune regioni d’Europa sembravano cadere nelle tenebre e altre erano ancora prive di civiltà e di valori spirituali, fu lui [san Benedetto] con costante e assiduo impegno a far nascere in questo nostro continente l’aurora di una nuova èra. Principalmente lui e i suoi figli portarono con la croce, con il libro e con l’aratro il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia». Mi pare che queste tre immagini – la croce, il libro e l’aratro – siano ancora attuali per disegnare un impegno autenticamente evangelico, anche se le possiamo rimodellare rispetto al modo stesso con il quale il santo Pontefice le interpretava ormai sessant’anni fa.

La croce ci testimonia la profondità di un amore che giunge a dare la vita. La civiltà europea è stata generata dal sangue dei martiri, di ieri e di oggi. Basti pensare ai tanti cristiani che hanno dato la vita nei campi di sterminio, o ai monaci di Tibhirine e agli altri martiri dell’Algeria negli anni Novanta, di recente beatificati. Anche a tutti coloro ai quali non è chiesto di dare la vita fino al sangue viene però domandato di essere persone che vanno controcorrente, poiché desiderano testimoniare che la pace è possibile, che le vie della giustizia sono percorribili, che le strade dell’accoglienza ospitale rimangono necessarie, che le strategie per la vita vanno riconosciute come prioritarie rispetto a ogni logica di morte. E desiderano farlo in un mondo che continua a essere segnato da guerre, steccati, ingiustizie, discriminazioni, violenze.

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Il libro è segno di cultura, anche di quella cultura che ci è stata trasmessa dagli scriptoria monastica, come ricordava Paolo VI. Lo intenderei tuttavia in modo più ampio, ad esempio come capacità di riflessione profonda, di dialogo pacato, di ricerca condivisa, di comunicazione ospitale. C’è un’affermazione forte con la quale si apre il Libro del Siracide, unica nella Bibbia: «Ogni sapienza viene dal Signore / e con lui rimane per sempre» (Sir 1,1). Ogni sapienza! Anche quelle non religiosamente determinate, se sono autentiche, veramente umane, sono anche spirituali e luoghi attraverso i quali Dio si rivela, si fa conoscere e ci consente di edificare una storia diversa, secondo il suo desiderio. La vera sapienza non divide, ma unisce. Sono le false sapienze a disperdere, frantumare, mettere gli uni contro gli altri, polemicamente.

Infine Paolo VI parlava dell’aratro, quindi del lavoro. Oggi, anche alla luce dell’enciclica Laudato si’ di Francesco, possiamo riconoscere nell’immagine simbolica dell’aratro l’impegno affidato all’adam di coltivare e custodire il giardino, perché sia davvero casa comune per tutte le creature di Dio.

Al momento della nomina ad abate di Montecassino lei non aveva ancora ricevuto l’ordinazione diaconale. Qual è – e quale potrebbe essere – la missione di uomini e donne laici?

È vero, fino ai primi mesi di questo anno sono rimasto monaco non sacerdote. Accettare la nomina di papa Francesco a nuovo abate di Montecassino ha comportato per me l’accettazione dell’ordinazione presbiterale. L’ho percepita come una seconda chiamata nella chiamata originaria, che però permane come radice del mio essere ora un presbitero, aiutandomi a vivere il sacerdozio come servizio, vincendo pertanto le tentazioni clericali, sempre in agguato

Mi pare che la prima missione di laici e laiche sia quella di vivere con competenza e responsabilità gli impegni che assumono, nella società civile prima ancora che nella comunità ecclesiale. È nel mondo e nelle sue pieghe che sono chiamati a rendere ragione della loro speranza, anzitutto vivendo con coerenza e integrità gli impegni loro affidati, in ogni ambito, da quello familiare a quello educativo, da quello professionale a quello politico o sociale.

C’è poi certamente una responsabilità da giocare nella comunità ecclesiale, contribuendo, con la loro specifica vocazione laicale, a disegnare in modo sempre più autentico e concreto il volto di una Chiesa sinodale. Il processo sinodale in atto può davvero cambiare profondamente la Chiesa, e per farlo c’è bisogno dell’impegno e della competenza di tutti. E che soprattutto ognuno faccia la sua parte, senza voler essere o divenire altro. Le tentazioni del clericalismo sono in agguato anche tra i laici, come quelle del potere o dell’arrivismo. Ma la Chiesa sarà tanto più sinodale quanto più riusciremo a riconoscere il valore proprio di ogni carisma e sapremo viverlo, come afferma san Paolo, non per il proprio bene personale, ma a vantaggio dell’unico corpo di Cristo e di quel mondo nel quale Cristo continua a essere presente come colui che serve, grazie a tutte le membra di cui egli è capo.

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