Al tempo di Al Smith fu una mezza sconfitta, e per John Kerry una sconfitta completa. Al tempo di John Fitzgerald Kennedy fu uno scandalo. E quello di Joe Biden, forse, è il tempo dell’indifferenza. Perché essere un “presidente cattolico”, negli Stati Uniti, non va più di moda.
È probabile che della religiosità del “presidente cattolico” Joe Biden si siano occupati più spesso i commentatori che lui stesso. È pur vero che il mito statunitense di una nazione WASP (White Anglo-Saxon Protestant, Bianca Anglosassone Protestante) è fra i più duri a morire e che fare pubblicamente i conti con la propria appartenenza alla fede cosiddetta “romana” è qualcosa di necessario. Più per rassicurare l’elettorato non cattolico che non per conquistare quello cattolico, a giudicare dai risultati incassati dai principali candidati cattolici alle presidenziali degli Stati Uniti.
Con l’eccezione di Al Smith, non certo il primo nome ad affiorare alla memoria quando si parla di storia americana. Eppure Al Smith è il primo cattolico ad essere candidato da un partito maggiore – quello Democratico – alla presidenza degli Stati Uniti, nel 1928. Segno di tempi nuovi, forse, ma con risultati non confortanti. Le elezioni assegnano a Smith poco più del 40% dei voti totali e soltanto 8 Stati (contro i 40 che vanno al suo avversario repubblicano, Herbert Hoover), tutti del Profondo Sud (Deep South) degli Stati Uniti, con la sola eccezione del Massachusetts.
A pesare è il timore – sul quale fanno leva gli oppositori – di future ingerenze pontificie nella politica statunitense. Il diffuso sentimento anticattolico, unitamente a considerazioni di tipo economico, rendono scontata l’elezione di Hoover alla presidenza. Dal canto suo, Smith può vantare un ampio supporto nell’elettorato cattolico, in particolare delle “nuove” elettrici donne, che al tempo hanno da poco conquistato il diritto al voto. Non manca, però, anche l’apprezzamento degli oppositori al proibizionismo e di quanti sono preoccupati per il dilagare della criminalità organizzata nelle grandi città.
Passano più di trent’anni prima che un altro cattolico si candidi alla Casa Bianca. È il 1960 e durante la campagna elettorale la fede di John Fitzgerald Kennedy è più volte chiamata in causa, per lo più in chiave negativa. Diversi protestanti, soprattutto luterani e delle Chiese battiste del Sud, rievocano il pericolo di un’intromissione del Papa negli affari nazionali. Kennedy è chiamato a chiarire la propria posizione e, con un occhio già alla Casa Bianca, lo fa senza mezzi termini: «Non sono il candidato cattolico alla presidenza. Sono il candidato alla presidenza del Partito Democratico che è anche cattolico», spiega nel settembre 1960. «Non parlo per la mia Chiesa su questioni pubbliche, e la Chiesa non parla per me».
Colpisce, però, il mutamento nell’orientamento di voto dei cattolici. Non si tratta ormai più dell’ampio bacino della classe operaia, per lo più immigrata, in cerca di rivalsa, come accaduto alla fine degli Anni ’20, ma di una nuova classe media in via di affermazione, per la quale il Cattolicesimo non è (più) un elemento distintivo, né tanto meno di separazione. John F. Kennedy certo conquista l’80% dei voti dei cattolici, ma, sebbene l’elettorato cattolico non sia mai stato monolitico, il risultato è ben al di sotto della mobilitazione ottenuta, per esempio, 48 anni dopo da Barack Obama fra l’elettorato afroamericano.
Un segnale di cambiamento che si ripropone, con ancora maggiore evidenza, 44 anni dopo. Nel 2004 il Partito Democratico candida di nuovo un cattolico alla presidenza, John Kerry. Nonostante la sua storia personale – la conversione dei nonni dall’Ebraismo al Cattolicesimo, il servizio come chierichetto, il dichiararsi praticante, la devozione al Rosario e a san Cristoforo, i dubbi su una propria vocazione sacerdotale in gioventù – i rapporti di Kerry con le gerarchie cattoliche non sono dei più facili, dentro e fuori dagli Stati Uniti.
«Non posso prendere quello che è un articolo di fede per me e legiferarlo per qualcuno che non condivide quell’articolo di fede», rivendica Kerry in un dibattito, nell’ottobre 2004. Le posizioni ambivalenti di Kerry – qualcuno direbbe ambigue, soprattutto in materia di bioetica – non tracciano un evidente spartiacque con il candidato repubblicano, George W. Bush. Non è un caso, forse, che l’elettorato cattolico premi quest’ultimo, assegnandogli il 52% delle preferenze (contro il 47% dato a Kerry). A votare per Kerry sono soprattutto ebrei, atei e appartenenti a religioni non cristiane.
Il fallimento di John Kerry nel conquistare i voti di quanti condividono la sua stessa fede sembra mettere fine alle speculazioni sul “voto cattolico” alle presidenziali. Papa Francesco «può giocare un ruolo fondamentale nel contenere le forze del caos e stabilire un ordine mondiale più giusto», dichiara John Kerry nel 2015, da segretario di Stato di Obama. Ammettendo una «simmetria tra le priorità diplomatiche del Santo Padre e quelle della nostra Amministrazione». Altri tempi.
Il risultato delle ultime elezioni, che ha premiato l’ennesimo candidato cattolico alla Casa Bianca, Joe Biden, sembra riproporre diversi scenari del passato. Non soltanto l’evidente ambiguità di numerose posizioni sostenute da Biden, se lette alla luce della dottrina cattolica, ma anche la scarsa distinzione dell’elettorato cattolico e l’emergere, piuttosto, di un fronte più nettamente protestante. Se il primo, infatti, premia soltanto marginalmente il correligionario Joe Biden (52%, contro il 47% a Donald Trump), i numeri dicono di una fiducia decisamente inferiore rispetto a quella riconosciuta a Biden da ebrei (76%), appartenenti ad altre religioni (69%) e atei (65%). A distinguersi, semmai, è l’oltre 60% di protestanti che votano per il candidato repubblicano. Nel complesso, ce n’è abbastanza per sfatare il mito di Joe Biden come “presidente cattolico”. Ammesso che mai, realisticamente, potrebbe esisterne uno.
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