Da Francesco a Jannik. Elogio della sottrazione

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Ovvero, di un Papa in silenzio e di un campione anti-spettacolo. Quando sottrarre, ma non sottrarsi, in un mondo che aggiunge.


C’è una chiave di lettura per interpretare il “fenomeno Jannik Sinner” che passa attraverso le vittorie agli Australian Open e ai Miami Open, la prima volta di un italiano al numero 2 del ranking mondiale e il primato nazionale di vittorie ai Masters 1000 da quando esiste questa categoria di tornei. È una chiave di lettura che aggiunge record a record per tentare di spiegare la mania dei “Carota boys”, i fan di Sinner, provando a impiallacciare le prime assi di un nuovo carrozzone mediatico.

Il risultato dell’operazione, a conti fatti, spiega quasi nulla del fascino di un campione che non aggiunge, bensì sottrae, senza sottrarsi: preferendo alle feste una cena tranquilla, riconoscendo il peso del lavoro in una professione costruita dal basso sul talento e non per investitura, ammettendo che i sacrifici vengono prima delle soddisfazioni, sostituendo la quotidianità dei gesti semplici – un ombrello, qualche bottiglia d’acqua, poche chiacchiere – allo spettacolo basato sul rumore.

È la sottrazione della normalità – normalità nel giudizio di chi scrive, ma è il caso di ammettere lo svantaggio statistico di questa opinione – che batte sul campo l’arroganza dell’addizione. Sarà un tratto dei campioni, ma forse è una lezione di famiglia. Come in casa Goggia, Ezio e Sofia, dove un infortunio sugli sci può essere «il piano che Dio ha riservato per me», come scrive la campionessa olimpica su Facebook. E allora «altro non posso fare che spalancare le braccia, accoglierlo e accettarlo». Parole imparate da Elena Fanchini, un’altra campionessa dello sci, portata via troppo presto dalla malattia.

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Veniamo da giorni di silenzio. Mi si perdoni il paragone: anche la Quaresima di papa Francesco si è distinta per sottrazione, invece che per addizione. Basti pensare alle speculazioni attorno alla mancata omelia della Domenica delle Palme.
Al di là della questione liturgica, in pochi si sono interrogati sulla reale utilità di aggiungere parole a parole. «Non permettiamo che la Sua voce si perda nel silenzio assordante dell’indifferenza», ricordava Francesco a Pasqua dello scorso anno. È ancora così.

La Chiesa in tempi recenti non ha sbagliato per troppo silenzio, semmai per il contrario. Certo, quella del Papa più che una scelta ha l’aria di una costrizione dettata dalle circostanze: la voce debole, il fiato corto, la stanchezza della malattia e dell’età. Ma c’è chi, dimenticando per un momento le lezioni di Paolo e di Giovanni Paolo (sia il primo che il secondo), giudica le crescenti infermità fisiche un ostacolo, per non dire una colpa, del pontificato. Qualcuno ha addirittura parlato di «immagine patetica», di un Papa ridotto ad un «povero vecchio malato e indebolito». Espressioni volgari che è più facile attribuire a firme del cattolicesimo italiano che statunitense.

Anche Francesco sottrae, ma non si sottrae. E scrive. Scrive nelle meditazioni della Via Crucis al Colosseo che «non servono parole», perché certo «la vita non ricomincia dalle mie parole». Ma può interrompersi, giacché ormai «non serve nemmeno un macabro corteo: basta una tastiera per insultare e pubblicare sentenze». E ferire.

A vincere sono i silenzi, che «non hanno voce ma si fanno sentire». Meraviglia della sottrazione. «La tua reazione stupisce, Gesù: nel momento decisivo non parli, taci. Perché più il male è forte, più la tua risposta è radicale. E la tua risposta è il silenzio. Ma il tuo silenzio è fecondo: è preghiera, è mitezza, è perdono, è la via per redimere il male, per convertire ciò che soffri in un dono che offri. Gesù, mi accorgo che ti conosco poco perché non conosco abbastanza il tuo silenzio».

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Siamo agli antipodi della folla di ogni tempo che urla, dal «grido di chi non ha scrupoli a cercare i mezzi per rafforzare sé stesso e mettere a tacere le voci dissonanti». La voce che fa parlare la folla è «il grido fabbricato dagli “intrighi” dell’autosufficienza, dell’orgoglio e della superbia». Sono parole di sei anni fa. Non serve davvero un’addizione.

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