Campo di battaglia e campo dell’apostolo, come lo definiva don Primo Mazzolari. Campo di santità, ma anche di perdita di sé. È l’esperienza dei cappellani militari così come traspare dai loro stessi diari, oggi spesso mal compresa.
«Bombardamento intenso nell’Ermada e nello Stol. Rimango a Valletta Catanzaro, coll’intenzione di salire a dolina De Lys la sera. Domani è festa, voglio celebrare alle 4 e poi partire. Dormo poco, e riposo meno. Celebro la mattina alle 4 e alle 5 mi accingo a partire. Comincio a tossire e lacrimare: sono i gas. […] Il bombardamento è spaventevole. Eppure, in un momento di quasi diminuzione, parto e via. È spaventoso. Le trincee di prima linea sconvolte, sotto le mie mani cadaveri sfracellati del genio, sotto ai quali trovo qualche altro vivo, istupidito, intontito. Corro alla dolina De Lys, non si può entrare, è incendiata. Saltano le bombe. Il colonnello è ferito e corro sopra i morti alla dolina Bono. Respiro. Continua il bombardamento, mi è possibile uscire. Quali battaglie! Quali barbarie! Che stragi! Venne la sera: il bombardamento continuava. Confusione per l’acqua. Feriti a morte». È il 18 agosto 1916 e la brutalità della prima guerra mondiale traspare in tutta la sua intensità dalle pagine del diario di don Giovanni Rossi, cappellano militare del 1° Reggimento Granatieri di stanza sul Carso [1].
La prima guerra mondiale è il campo di battaglia di migliaia di sacerdoti – al termine del conflitto, fra i circa 12 mila cappellani arruolati si contano quasi 900 morti, 800 feriti e oltre 1.200 decorati. È campo di santità e di eroismo, ma anche di perdita, perfino di sé. Molto si è discusso del ruolo riconosciuto a Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, di patrono dell’Esercito italiano. Un titolo – si potrebbe dire – guadagnato sul campo, nei dolorosi anni di cappellano della sanità militare durante la prima guerra mondiale. Un’esperienza condivisa, in anni diversi, ma tragicamente simili, con il proprio segretario, il card. Loris Capovilla, cappellano a sua volta durante la seconda guerra mondiale. O ancora con don Giovanni Minzoni, giovane sacerdote formatosi negli anni della lotta al modernismo, cappellano e antifascista, o con il beato don Carlo Gnocchi, indimenticato al fianco degli Alpini e come angelo dei “mutilatini” al termine del conflitto.
Negli 2016 l’Ordinariato militare per l’Italia può contare su 162 “sacerdoti in divisa”, in massima parte secolari, equiparati agli ufficiali delle Forze armate. Nei gradi, così come nello stipendio. Tempi diversi, anche per la cronaca, ma che non possono far dimenticare il ruolo insostituibile ricoperto dai cappellani militari al fianco dei soldati e delle loro famiglie durante i due conflitti mondiali. «Il corpo e l’anima del soldato da vivo; sono il corpo e l’anima del militare da morto» [2].
In loro si riuniscono rito e speranza, affetto e dolore, lutto e memoria. Così come l’inevitabile necessità di mediare fra Dio e Stato, pace e guerra, religione cristiana e religione civile. Anche fede e Vangelo passano attraverso la prova della guerra, e talvolta della sua propaganda. È così che la guarigione del servo del centurione diviene «magnifica sanzione della disciplina militare» nel commento che ne fa don Rodolfo Ragnini, cappellano al servizio della Marina militare durante la Grande Guerra [3]. Al pari dell’Eucaristia, «Pane dei forti e dei vittoriosi», che dà «la speranza , l’energia, l’immortalità». Mentre il mistero più insondabile, in patria come al fronte, rimane la coscienza dell’uomo. «Quanto c’è da lavorare nell’anima di questi soldati: ci sono delle lacune lacrimose», confida al proprio diario l’11 febbraio 1917 don Carmine Cortese, originario di Tropea, in Calabria, dopo Caporetto internato nel campo di concentramento di Josefstadt, in Boemia. «In fatto a religione sono un po’ freddi. Crederanno in Dio, ma lo bestemmiano. Tutti dicono […] che se esistesse, non li avrebbe abbandonati» [4].
Un senso di abbandono – se non da parte di Dio, dello Stato, della società e talvolta della Chiesa – che accomuna i cappellani ai soldati. «Chi mai, tre anni fa, si sarebbe immaginato una simile tragedia? Mentre eravamo nel fervore degli studi è sorto questo improvviso uragano a disperderci chi qua e chi là come foglie secche al vento» [5]. La «inutile strage» investe il cappellano, molto spesso giovane, nella sua totalità di sacerdote e di uomo, diviso fra continue ed opposte tensioni. «Sono come un naufrago: quanta tempesta in questi due mesi, memorabili, indimenticabili, gloriosi, eroici ed amari» [6].
Con esiti anche molto diversi fra loro. Per alcuni il campo di battaglia rimane, per dirla con le parole che furono di don Primo Mazzolari, anzitutto «il campo dell’apostolo» [7]. È il caso di don Giovanni Rossi, insignito della medaglia d’argento al valore militare perché nei dodici terribili giorni di combattimenti sul Carso, fra il 23 maggio e il 5 giugno 1917, «non venne mai meno ai doveri della sua nobile missione. Primo fra tutti, in prima linea dette tutta la sua attività per rincuorare e sollevare i feriti colla parola della fede e della speranza. Durante le stesse giornate procedette, inoltre, di giorno e di notte, allo scoperto e sotto il continuo fuoco dell’artiglieria avversaria, all’inumazione dei caduti sul campo, dando così esempio di abnegazione sublime e alto spirito del dovere» [8].
In altri, come in don Annibale Carletti, conterraneo e amico fraterno di don Primo Mazzolari, cappellano militare del 207° Reggimento della Brigata Taro, sul monte Zugna, in Trentino, le ragioni della guerra sembrano, forse troppo umanamente, avere la meglio. «E io dovevo ordinare di ammazzare? Sì, io volontariamente, coscientemente ordinai di uccidere i nemici d’Italia, i primi che si erano armati per calpestare i diritti di tutte le piccole Patrie», scrive nel dopoguerra, dopo aver guidato più volte all’assalto il proprio reparto, rimasto privo di ufficiali. «Dovevo decidere tra la viltà e l’onore; dovevo decidere della mia vita, ma soprattutto della vita di centinaia di soldati. E udivo l’invocazione dei nostri feriti, e pensavo al pericolo che incombeva sulla Patria. Arrendermi? All’intimazione dell’ufficiale austriaco, risposi “No, giammai!”. Dio e la Patria mi comandavano di resistere, di combattere, di vincere, e decisi il nostro olocausto. Ordinai il fuoco e la lotta col nemico di molto superiore di forze durò per ore sotto il più violento fuoco d’artiglieria, ma riuscimmo a ricacciare il nemico, a liberare i nostri compagni feriti e a rioccupare le trincee perdute» [9].
Prete e soldato in proporzioni diverse, medaglia d’oro al valore militare, ma privato dell’abito talare, incapace, forse, di trovare la pace dopo la guerra. Un caso nulla affatto raro, se è vero che in molti, prima di tornare ad una vita di parrocchia, dovettero affrontare un delicato periodo di esercizi spirituali, di referenze e di esami. Sono 350 sui circa 12 mila arruolati, i sacerdoti sospesi a divinis dopo il conflitto. E più ancora quelli che abbandonano il sacerdozio di propria iniziativa. Molti altri, in apparenza irreprensibili, portano dentro di sé ferite più insidiose. «Questi, che hanno sempre camminato senza una volontà e una fede proprie, facili ad accettare ogni sorta di adattamenti e di transizioni pur di vivere quietamente la vita, rivestiranno l’abito talare, riprenderanno le solite abitudini, le solite pratiche, e saranno i più obbedienti, i più ortodossi e i più intolleranti, ma anche i più dannosi al progressivo sviluppo dell’idea cristiana», denuncia con amarezza lo stesso don Annibale Carletti [10]. Senza facili ingenuità, pagine che sembrano tratteggiare l’attualità del nostro tempo.
[1] Girolama Borella – Daniela Borgato – Roberto Marcato, Chiedo notizie o di vita o di morte. Lettere a don Giovanni Rossi cappellano militare della Grande Guerra, Rovereto, Museo storico italiano della guerra, 2004, p. 61.
[2] Ivi, p.13.
[3] Roberto Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati 1915-1918, Gaspari, 2015, p. 70.
[4] Cfr. Carmine Cortese, Diario di guerra. 1916-1917, a cura di Antonio Pugliese, Soveria Mannelli, Rubettino, 1998.
[5] Borella – Borgato – Marcato, Chiedo notizie o di vita o di morte., op. cit., p. 36.
[6] Cfr. Cortese, Diario di guerra, op. cit..
[7] Cfr. Primo Mazzolari, Diario, II (1926-1934), a cura di Aldo Bergamaschi, EDB, Bologna, 1999.
[8] Borella – Borgato – Marcato, Chiedo notizie o di vita o di morte., op. cit., p. 58.
[9] Cfr. Annibale Carletti, Con quali sentimenti sono tornato dalla guerra, Bilychnis, Roma, 1919.
[10] Cfr. Ibidem.
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