Dopo il Duomo, è forse la chiesa più famosa della città, simbolo come poche altre dell’identità e della storia religiosa di Milano. Non stupisce, perciò, che la basilica di Sant’Ambrogio sia al centro di devozioni e misteri. Come quelli che hanno per protagoniste due colonne: quella del serpente e quella del diavolo.
Edificata fra il 379 e il 386 per volere di Ambrogio, vescovo di Milano, la basilica di Sant’Ambrogio (in origine Basilica Martyrum), è fra le più antiche chiese di Milano, non solo esempio straordinario di architettura ed arte paleocristiana, ma anche pietra miliare della storia milanese e della Chiesa ambrosiana, in grado di rivaleggiare per importanza con il Duomo. Comodamente raggiungibile dall’omonima fermata Sant’Ambrogio della linea metropolitana 2, la basilica ricalca tuttora la pianta dell’edificio paleocristiano e sorge in una zona originariamente adibita alla sepoltura dei cristiani uccisi durante le persecuzioni romane. Della basilica, Ambrogio intendeva fare il centro della devozione milanese ai martiri e nel 397 – sebbene morto per cause incruente – vi venne sepolto lui stesso. Le sue spoglie mortali, rivestite dei paramenti liturgici, sono ancora oggi visibili nella cripta della basilica fra quelle dei martiri Gervasio e Protasio.
In oltre sedici secoli di storia le ricchezze architettoniche, artistiche e devozionali della basilica di Sant’Ambrogio non si contano, dal quadriportico dei catecumeni, antistante la basilica, al romanico lombardo delle architetture esterne ed interne, dal ricco mosaico absidale al sacello di San Vittore in Ciel d’Oro, dalla già menzionata cripta allo straordinario altare rivestito in oro, pietre preziose e smalti, capolavoro dell’arte di epoca carolingia firmato – letteralmente – da Vuolvino. Non stupisce, quindi, che la basilica di Sant’Ambrogio sia al centro di misteri e devozioni. Come quelli che hanno per protagoniste due colonne: quella del serpente e quella del diavolo.
La prima si trova all’interno della basilica, lungo la navata centrale. La colonna, antico-romana e di granito, deve il proprio nome – e la propria fama – ad un serpente in bronzo posto sulla sua sommità. Il riferimento è, con ogni probabilità, al biblico Serpente di Mosè, Nehustan, collocato dal profeta sopra un’asta, come da indicazioni di Dio, per la salvezza di quanti fossero stati morsi dai serpenti velenosi (cfr. Nm 21,4-8). Per lungo tempo creduta l’originale biblico, la scultura conservata nella basilica di Sant’Ambrogio sembra sia invece stata donata dall’imperatore Basilio II Bulgaroctono nel 1007. Tratta forse dall’ippodromo di Costantinopoli, capitale dell’Impero d’Oriente, la scultura avrebbe dovuto essere un dono per le nozze di Zoe, nipote di Basilio, con l’imperatore Ottone III di Sassonia, poi morto prematuramente.
Al Serpente di Mosè di Sant’Ambrogio – cui, dal lato opposto, corrisponde una colonna sulla quale è posta una croce – una certa religiosità popolare ha attribuito per secoli proprietà taumaturgiche. Caduto oggi nell’oblio, forse più per dimenticanza che per purificazione della fede, dal Serpente di Mosè si attende anche un’altra cosa: l’avviso della fine del mondo. Si dice, infatti, che quando giungerà il Giorno del Giudizio il serpente in bronzo riacquisterà vita e, sibilando, scenderà dalla colonna per tornare nel luogo in cui Mosè lo ha creato, la valle di Giosafat, fra il Monte del Tempio e il Monte degli Ulivi, a Gerusalemme Est.
Attinente al serpente, ma di segno opposto, è la leggenda di una seconda colonna che si erge nei pressi della basilica di Sant’Ambrogio. All’esterno della chiesa, sul lato sinistro rispetto alla basilica, è collocato un pilastro, noto come colonna del diavolo. Si tratta di una colonna corinzia in marmo, d’epoca romana e di origine incerta, la cui particolarità è rappresentata da due grossi fori che la leggenda vuole essere le tracce lasciate da uno scontro – mancato – fra un demonio tutt’altro che simbolico e il santo vescovo di Milano. Il maligno, infatti, nel tentativo di incornare Ambrogio, avrebbe invece finito con il conficcarsi maldestramente nella colonna. Liberatosi, non senza impegno, dalla sua prigione verticale, il diavolo sarebbe infine fuggito, spaventato ed umiliato, attraverso uno dei buchi, che da allora sarebbe un varco per l’inferno. Non a caso la tradizione popolare narra che i fori odorino ancora di zolfo e che poggiando l’orecchio alla pietra se ne possa avere un assaggio dei suoni dell’inferno. Suggestioni facilitate oggi dallo smog e dal frastuono del traffico. Singolare come le autorità cittadine negli anni abbiano tentato a più riprese di tappare i buchi, sempre riapparsi.
Se il pilastro pare avesse in realtà un ruolo cerimoniale nell’incoronazione degli imperatori germanici, che l’abbracciavano dopo aver giurato sul messale e aver ricevuta la corona ferrea, il diavolo dev’essere stato tutt’altro che inascoltato nella basilica. Qualche traccia – reale – la si rinviene nei due campanili della chiesa, che ne costituiscono una delle peculiarità. I maligni vogliono, infatti, che le due torri siano il frutto della difficile coabitazione nella basilica di due comunità, una di monaci ed una di canonici. Ai primi è da attribuire l’edificazione del campanile di destra, più basso, risalente al IX secolo. Ai secondi quella della torre di sinistra, volutamente più alta, risalente al XII secolo. All’origine del doppio campanile sarebbe una controversia tra canonici e monaci sull’uso del primo, che coinvolse in reciproche dimostrazioni di forza le autorità cittadine, a favore dei monaci, e quelle ecclesiastiche, al fianco dei canonici.
«O vecchi campanili, quante cose avete vedute e come diversamente le potreste raccontare, voi che avete dato così curioso esempio di discordia e avete guardato il mondo in modo così diverso l’uno dall’altro», scrive nel 1896 Sofia Bisi Albini, scrittrice e giornalista, nel suo “Voci di campanili” (p. 86). «Spettacolo poco edificante quel gioco all’altalena delle due torri rivali! Forse non avevano torto i Benedettini di non volere che altri avesse comando sulla basilica affidata ad essi e della quale avevano accresciuto lo splendore, ma le loro contese coi canonici somigliarono troppo a quelle di tutti gli umani. La potenza terrena corrompe la spirituale». Altro che buchi.
Raccogliere le molte ricchezze della basilica di Sant’Ambrogio in un unico itinerario coerente non è cosa facile. Nel 1997, in occasione del sedicesimo centenario dalla morte di Ambrogio, ci ha provato, fra gli altri, Carlo Capponi, responsabile dell’Ufficio beni culturali dell’arcidiocesi di Milano, che ha curato la guida La basilica di Sant’Ambrogio in Milano (Silvana Editoriale), riveduta negli anni successivi.
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