Meglio 100 giorni da Leone

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Uno è un grande «pacificatore» che «in sei mesi ha fermato sei guerre», un «eroe di guerra» che ha conseguito successi militari «spettacolari» e che in campo economico sta facendo «grandi cose». L’altro è Leone XIV.

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Meglio essere chiari fin da subito: qualunque confronto tra le performance di papa Leone XIV e quelle del presidente Usa Donald Trump non sarebbe soltanto impietoso – a voi dire per chi – ma anche improprio, per il diverso ruolo ricoperto. Eppure, al traguardo dei primi cento giorni del pontificato di Leone XIV, è difficile non farsi trasportare dalla suggestione del primo papa statunitense giunto al tempo della grande crisi dell’Occidente a guida americana – che è crisi politica, sociale, culturale, antropologica.

La medesima stagione e una comune radice statunitense hanno dato origine ad alberi, e conseguentemente a frutti, molto diversi fra loro, a conferma della banalità di ogni facile identificazione nazionale. Per uno statunitense che divide, ce n’è uno che riunisce. Per uno che seleziona e scarta, uno che orienta alla comunione. Cento giorni, sufficienti per delineare due interpretazioni divergenti del mondo contemporaneo, e dunque inevitabilmente anche del ruolo di una potenza come gli Stati Uniti nello scenario globale.

Di sé stesso Donald Trump, il primo a superare il conteggio a tre cifre, ha detto molto negli ultimi mesi, e quasi mai è un buon segno: si è definito un «pacificatore», forte del suo avere «fermato sei guerre in sei mesi» (con effetti tutt’altro che apprezzabili su alcuna, per il momento), come pure di essere un «eroe di guerra» (insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu), soprattutto in virtù dei successi militari «spettacolari» che avrebbe conseguito nel breve scambio di missili e droni fra Israele e Iran. Per non parlare del campo economico, dove l’autoproclamato «CEO d’America» starebbe facendo, a suo dire, «grandi cose» (anche attraverso il sadomasochismo dei dazi), confermando i rischi di ogni zona grigia tra provvedimenti economici pubblici e interessi personali. In breve, «Trump ha ragione su tutto», come dice di sé stesso.

Ben diversa la scelta di Leone XIV: stile sobrio, inclusivo, concretamente a favore di una pace «disarmata e disarmante», quando il mondo è voltato nella direzione opposta. Anche nella Chiesa, Prevost ha finora dimostrato di poter tenere insieme correnti diverse e potenzialmente divergenti. Ben lo dimostra un certo ritorno alla tradizione accompagnato da una storia personale e da uno stile comunicativo cosmopoliti, come sempre è stato il cristianesimo. Un’identità forte, e per questo aperta e dialogante, attenta al valore del Sabato ma soprattutto a quello dell’uomo. Senza dimenticare la ben considerata inazione iniziale, che sa di riflessione e di attesa, figlia tanto del temperamento di Prevost quanto del pontificato che l’ha preceduto.

All’estremo opposto si colloca la schizofrenia senza requie di Donald Trump. La lettura del mondo proposta dal presidente degli Stati Uniti è per sottrazione: sottrazione di pace per preservare interessi, di risorse per risarcire la guerra, di vite per farci riviere, di scambi per equilibrare il disavanzo, di persone per fare spazio a ideologie, di comunità in nome di sovranità, di credibilità internazionale per un (supposto) vantaggio elettorale.

La visione di Leone XIV, autenticamente cristiana, non può invece che offrirsi per addizione: aggiunta di impegno sociale dove c’è disuguaglianza, di dialogo dove c’è conflitto, di digiuno dove c’è sovrabbondanza, di radici dove c’è radicalismo, di una polarità condivisa in luogo della polarizzazione, di presenza reale dove c’è assenza digitale (è attesa una possibile enciclica in tema di intelligenze artificiali e altre “rerum digitalium”). Per la Chiesa, si tratta della pienezza di Dio dove c’è il vuoto dell’uomo.

«Là dove i responsabili delle istituzioni statali e internazionali sembrano non riuscire a far prevalere il diritto, la mediazione e il dialogo, le comunità religiose e la società civile devono osare la profezia», rivendica Leone XIV nel discorso per il meeting di Rimini. «Non sia il rancore a decidere il futuro», aveva già detto il papa.

La lunga crisi dell’Occidente ha caratteristiche comuni, e negli Stati Uniti trova soltanto il suo simbolo più emblematico: li si vorrebbe ottusamente impermeabili, in balia di un’amministrazione assetata di controllo centralizzato, pronta ad ignorare i limiti del diritto nazionale e internazionale in nome di sovranità, sicurezza, “America First”.

Un impianto ideologico efficace nella sua trivialità, dove il presunto bene comune è commisurato ai parametri della resa produttiva e finanziaria e i mezzi per conseguirlo sono ridotti alla forza impressiva e repressiva. Un modello, purtroppo: e questo la dice lunga sul nostro tempo. Tanto che alla ricetta proposta da uno statunitense di avanguardia si preferirà, almeno per ora, quella di un’America tutt’altro che “great again“, di nuovo grande, perché sempre più rimpicciolita dentro le proprie, vecchie paure.

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