Felice Maria Cappello, gesuita, canonista di fama internazionale, profondo lettore della società del suo tempo. Ma soprattutto celebre confessore, al quale anche padre Pio inviava i propri penitenti. Una chiave di lettura delle prossime elezioni europee.
Nel fine settimana i cittadini dei 28 Stati membri dell’Unione europea saranno chiamati ad esprimersi sulla nuova composizione del Parlamento d’Europa. Dal canto loro, i vescovi della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea (Comece) hanno da tempo rivolto un appello alla partecipazione al voto, orientato al sostegno della “comune casa europea”, sebbene «non è perfetta», riportando la persona al centro della politica. Diversi i temi indicati come primari: famiglia, persone migranti, sviluppo, diritti umani. Caratteristiche del “buon candidato” sono, per i vescovi, «integrità, competenza, leadership ed impegno per il bene comune». Ma anche gli elettori sono chiamati a senso di responsabilità. «Le elezioni sono solo il primo passo di un impegno politico, e chiamano i cittadini a monitorare ed accompagnare democraticamente il processo politico», proseguono i vescovi.
Un sano coinvolgimento politico che siamo forse portati a dare per scontato, ma che ancora oggi è ben lontano dall’essere conseguito, anche – ma non solo – dai cristiani e da cristiani. Responsabilità che sarebbe nulla più che la coerente conseguenza del plurisecolare impegno della Chiesa nella costruzione dell’identità europea, sebbene più volte ricusato dalle moderne istituzioni. Lo ricordano, quasi all’unisono, Pio XI e Paolo VI: l’impegno politico dei cristiani è “la forma più alta della carità”. Una lezione importante nel centenario dell’Appello ai liberi e forti e a 60 anni dalla scomparsa di don Luigi Sturzo. Ma anche un insegnamento nulla affatto banale se soltanto si guarda alle delicate vicende storiche e politiche che nel secolo scorso hanno contrapposto Chiesa e Stato in Italia.
È soltanto con le elezioni politiche del 1904, infatti, che, per la prima volta in quasi 40 anni, un pontefice – Pio X – consente delle eccezioni ai divieti alla partecipazione dei cattolici alla vita politica nazionale imposti dal non expedit e dal Sillabo di Pio IX. Un processo non privo di critiche, sia da parte liberale che conservatrice, la cui esistenza si deve anche ad una figura ancora poco conosciuta, sebbene di grande fascino: quella di padre Felice Maria Cappello.
Originario di Caviola, nel Bellunese, lontano cugino di Albino Luciani, Felice Maria Cappello porta nella propria storia personale le tracce di un momento storico, sociale ed ecclesiale particolarmente complesso. Di intelligenza non comune (termina gli studi in seminario a soli 22 anni), formato in teologia, filosofia e diritto, nel seminario di Belluno don Cappello è professore di Diritto, Esegesi biblica ed Ebraico. Collaboratore della Civiltà Cattolica, è apprezzato – e protetto – da padre Enrico Rosa, direttore dal 1915 al 1931. È sulle pagine della rivista dei Gesuiti che don Cappello pubblica, tra gli altri, articoli di tema politico. Le sue prese di posizione gli valgono critiche da alcuni ambienti della gerarchia ecclesiastica, accuse di modernismo (paradossali per chi, come lui, aveva sostenuto aspre polemiche con i colleghi modernisti bellunesi), ma costituiscono anche uno degli elementi utili a «preparare il terreno alle sapienti intenzioni del Santo Padre [Pio X, NdR], per una revoca o parziale o generale del non expedit».
Allontanato da Belluno e turbato anche a livello personale, don Cappello trova conforto a Lourdes, dove nel 1913 matura la decisione di entrare nella Compagnia di Gesù. Per padre Felice Maria Cappello, ormai gesuita, sono gli anni del ritorno all’insegnamento, prima al Pontificio Collegio Leoniano di Anagni e in seguito alla Pontificia Università Gregoriana, e della fama nazionale ed internazionale come canonista e giurista, del quale studenti, monsignori di Curia e dei Dicasteri vaticani apprezzano unanimemente l’abilità «di fare subito sintesi e poter rispondere sui casi più diversi […] in modo da generare sicurezza e pace nell’interpellante» (Francesco Occhetta, Padre Felice Maria Cappello. Il gesuita della misericordia, Gorle, Editrice Velar, 2016, p. 24).
A livello popolare – e non solo –, però, straordinaria notorietà gli deriva dai quarant’anni trascorsi come confessore nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a Roma. Per tutti è “il confessore di Roma”, un appellativo ripreso anche dal titolo della biografia che ne fa il confratello Domenico Mondrone (La Civiltà Cattolica, 1963). Tanto è straordinario per erudizione e per chiarezza intellettuale quanto padre Cappello coltiva nell’umiltà la vita sacerdotale: battezzare, distribuire l’Eucaristia, visitare gli ammalati in ospedale e in casa, sempre con i mezzi pubblici, pregare incessantemente, soprattutto il Rosario, e assolvere dai peccati. Tanto più misericordioso verso chi più sbaglia.
Ed è nel confessionale che vengono ad incontrarlo sacerdoti, religiosi, religiose e semplici fedeli. Ma non solo: gli fanno appostamenti dentro e fuori dalla Gregoriana, lo attendono per le strade, lo cercano nei luoghi e negli orari più inappropriati. Anche vescovi e cardinali, si dice. Tanto che per un certo tempo si prova anche a far prendere il numero per gestire la fila al confessionale: ne vengono qualche discussione e affari inediti per i bagarini. Nel 1950 lo stesso padre Pio da Pietrelcina, già circondato da straordinaria fama di confessore e di taumaturgo, indirizza i propri penitenti romani a padre Cappello. Attorno al quale, intanto, si moltiplicano le “stranezze”: il dono di leggere subito ed in profondità l’anima dei penitenti ed apparenti episodi di preveggenza non si contano e trovano riscontri non soltanto nella semplicità popolare.
Padre Felice Maria Cappello muore il 25 marzo 1962, in una Roma ormai divenuta anche “sua”. Al funerale si contano 20 mila persone, che a gran voce lo reclamano di nuovo a Sant’Ignazio. E a Sant’Ignazio padre Cappello c’è, sepolto accanto al suo confessionale, all’interno del quale sono esporti una sua stola e gli ex voto delle grazie ricevute. Un luogo attorno al quale, per quattro decenni, si sono radunate miserie, speranze, peccati e insensatezze di credenti e non, romani e non. Le stesse che caratterizzano sempre più anche l’attuale società europea.
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