Aborto e migrazioni: argomenti spesso ritenuti distanti fra loro, ma fra i più dibattuti in politica e nella Chiesa. La difesa della vita vale anche per i migranti? Forse no.
Di aborto si parla, o almeno si dovrebbe parlare senza paure. È possibile insistere troppo sulla difesa della vita o la verità è che non si insiste mai abbastanza, finendo con il derubricarla – almeno nel sentire comune – a questione di second’ordine? Il timore, tutt’altro che infondato, è che ci sia vita – e ci siano vite – che vale la pena difendere più di altre. Un pensiero che si affaccia alla mente riflettendo su quanto emerso in occasione del 37° Convegno nazionale dei Centri di aiuto alla vita “Vivai di un nuovo umanesimo”, svoltosi pochi giorni fa a Milano.
Stando agli ultime statistiche italiane in materia di aborti, risalenti al 2015, questi ammonterebbero a poco più di 86mila, scesi per la prima volta sotto quota 90mila. “Merito”, si disse un paio di anni fa, dell’Ulipristal acetato, la cosiddetta pillola dei cinque giorni. Un elemento sul quale riflettere, così come sul fatto che degli oltre 86mila aborti praticati in Italia in quell’anno, ben 27.500 hanno coinvolto donne straniere (30,8%).
Un dato che colpisce, soprattutto se confrontato con la sensazione di “invasione” percepita dagli italiani e con il rilancio demografico del quale – nel bene o nel male – gli immigrati stranieri sono ritenuti protagonisti. Ma c’è di più. Sempre nel 2015, a fronte degli oltre 50mila bambini italiani abortiti, ne sono nati 400mila, mentre ai già menzionati 27.500 aborti di bambini stranieri sono corrisposte soltanto 70mila nuove nascite. Come a dire che, se per ogni bambino italiano abortito ne sono nati 8, tra i figli di immigrati il rapporto è di un bambino abortito ogni 2,5 nati.
Questioni apparentemente di fredda statistica, ma dietro le quali si celano abissi di miseria umana e morale nei quali vivono – o sono costretti a vivere – molti immigrati. Incubi che si fanno ancora più cupi per le donne, costrette ad affrontare violenze (in media dai 4 agli 8 stupri soltanto durante il viaggio, dei quali 2 di gruppo), schiavitù, separazione dal proprio contesto familiare, sociale e culturale. Abbandonate a sé stesse con in grembo vite innocenti, ma spesso non desiderate, purtroppo non stupisce che molte di queste donne ricorrano all’interruzione volontaria (ma quanto?) di gravidanza, nella maggior parte dei casi ottenuta con i farmaci, fuori dagli ospedali. Una situazione drammatica alla quale il governo potrebbe porre rimedio concedendo immediatamente il permesso di protezione sociale per le donne incinte, indipendentemente dallo stato di avanzamento della gravidanza, stando alle parole di mons. Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e già direttore generale della Fondazione Migrantes.
L’80% delle donne che bussano alle porte dei Centri di aiuto alla vita oggi è straniera, e se la percentuale scende per le ospiti delle case di accoglienza, si attesta comunque al 55%. Non va meglio alle immigrate che sembrano “riuscite”, il più delle volte strette fra ritmi di lavoro alienanti, bisogno di denaro da inviare a casa, datori di lavoro tutt’altro che disponibili ad acconsentire ad una maternità e un’incolmabile solitudine.
Su quale sia la vita – e le vite – da difendere si gioca gran parte della credibilità di quanti le sostengono. Perché proteggere un bambino non ancora nato da quanti vorrebbero che non nascesse mai non può concedere nulla a logiche venate di xenofobia. Così come non può non accompagnarsi alle battaglie contro la guerra, la proliferazione indiscriminata delle armi e degli armamenti e le moderne schiavitù, prodotti di una medesima società sempre più nichilista, violenta e indifferente.
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