Palamara, Coluccia e gli altri. Sacerdoti sempre, soli mai

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Un appello, la scorsa estate, a non lasciare soli i bambini di Caivano dopo l’ennesima ferita inferta al quartiere, cioè a tutti noi, con la violenza su due bambine. Un altro pochi giorni fa, dopo l’inasprirsi di minacce e attentati contro i sacerdoti che si oppongono alla criminalità organizzata: «Forse, li abbiamo lasciati troppo soli? Ne abbiamo fatto un bersaglio facile?», si chiede don Maurizio Patriciello. «Sono domande scomode, che potrebbero dare fastidio a qualcuno, ma sono domande che dobbiamo farci tutti quanti». Due appelli differenti, allo Stato e alla comunità cristiana, che esigono risposte differenti.


Sono tanti, troppi i preti sotto minaccia. O forse sono troppo pochi, perché il sacerdozio è sempre scomodo, scandalo luminoso che non si può nascondere sotto al moggio, pietra d’inciampo contro cui non si può evitare di urtare, sale della terra sulle ferite di questo mondo. E se non è scomodo non è sacerdozio, che sia quello dei presbiteri ordinati oppure di ogni battezzato.

È scomoda la testimonianza di don Antonio Coluccia, vocazionista, fondatore dell’Opera Don Giustino Onlus. Che non teme di opporsi alla criminalità organizzata, figurarsi di vestire la tonaca. Perché la battaglia di don Antonio Coluccia non è solo sociale, ma trasuda spiritualità. A cominciare dal durissimo giudizio espresso sulla droga, che non è una tragedia soltanto sul piano umano, ma «l’eucarestia di Satana».

È scomoda la testimonianza di don Felice Palamara, parroco di San Nicola di Pannaconi, frazione di Cessaniti, meno di 3 mila abitanti nella provincia di Vibo Valentia, in Calabria. Alla fine di febbraio c’è chi ha provato ad avvelenarlo perché promotore di legalità e amore nella parrocchia, in un paese – e potrebbe essere l’Italia intera – dove si moltiplicano le indagini per infiltrazioni mafiose, anche nelle istituzioni. Un gesto vigliacco, come può esserlo versare della candeggina nel vino e nell’acqua per la messa. Ultima di una serie di intimidazioni, che finora avevano colpito l’automobile di don Felice Palamara e coinvolto anche il vescovo, mons. Attilio Nostro.

Come reagire alla violenza? «Questa è stata, continua ad essere la mia risposta: la mia vendetta si chiama amore», mi risponde don Felice Palamara, citando il titolo di una sua poesia. Me la invia. «La mia vendetta si chiama amore, il mio scudo perdono, la mia armatura misericordia. Il mio agire sarà l’accoglienza, la mia parola la preghiera, il mio gesto un cuore aperto, la mia battaglia il loro cambiamento». Fra le righe si intuisce un programma di vita, anche in una terra più difficile di altre. «Non mi soffermo agli ostacoli, né mi lascerò impaurire dal buio, perché al di là di tutto chiunque sia, qualsiasi cosa è stata fatta a me è, e rimane quel fratello solamente d’amare, anche se la giustizia dovrà fare il suo corso».

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Scorro altre poesie che mi invia don Felice Palamara, e ci trovo il senso di un sacerdozio che con troppa superficialità è detto “di strada”. «Sacerdote non dimenticare di indossare oltre la stola anche il grembiule. Di portare oltre il pane e il vino anche un catino. […] Di contemplare oltre il crocifisso in chiesa anche per le strade il crocifisso di carne» (Sacerdote, non dimenticare il grembiule).

La strada è al centro dell’impegno di don Felice come uomo, ma acquista una valenza più profonda quando diviene il “luogo teologico” dove donarsi agli altri nel ministero sacerdotale. «Amo immensamente la strada, per me sacra come sacro è l’altare» (La strada è il mio altare).

La strada, sia chiaro, non è solo quella degli altri, che il sacerdote interseca di tanto in tanto. È l’ambiente del prete che si scopre, senza vergogna, «un povero uomo, un viandante che senza sosta cammina, cammina tra l’asfalto della città, le stradine della campagna, tra le strade polverose o rocciose» (Il sacerdote, un viandante assetato). Le stesse strade dove troppo spesso cade il seme, non meno buono di altri, ma a cui non è dato modo di produrre frutto. E che, diventato rovo, ferisce.

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