La guerra in Ucraina ha scalzato un conteggio di decessi e contagi lungo anni, e già sembra cedere il passo ad altre vicende non meno preoccupanti per il futuro. Viviamo sul punto di essere travolti dalle emergenze, dal clima alla pandemia, quando non dal conflitto. «È molto pericoloso usare metafore di guerra in un contesto di malattia». Mentre gli Stati «hanno psicologi che preparano il terreno alla battaglia: terrorizzare le persone perché abbandonino le città, ma anche motivarle a pagare armi di distruzione in un’escalation senza fine». Anche questa è economia dell’emergenza. Intervista allo psicologo dell’emergenza Fabio Sbattella.
Siamo preda di una politica e di una mentalità dell’emergenza. Abbiamo un patologico bisogno di avere un nemico, sia esso un virus oppure uno Stato, e soffriamo di un terribile amore per la guerra, come James Hillman, psicologo di formazione junghiana e pacifista, titolava un suo libro. L’emergenza, al pari della guerra, spinge alla fretta, soffoca la riflessione, rende impossibile cogliere la complessità e l’interdipendenza dei fenomeni. Basti pensare alle crisi idrica, climatica ed energetica, radicalmente connesse, ma anche alle sempre più frequenti pandemie.
Ne parlo con il prof. Fabio Sbattella, psicologo e psicoterapeuta, docente alla Facoltà di Psicologia e di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano. Specializzato in Psicologia clinica, si occupa delle situazioni in cui la psiche è minacciata o invitata a rapidi cambiamenti da eventi avversi. Responsabile dell’Unità di ricerca in Psicologia dell’emergenza e dell’intervento umanitario, ha tenuto lezioni a Madrid, Monaco, Barcellona, Lugano, Mosca, Pristina (Kosovo), Tirana, Batticaloa (Sri Lanka) e in molte università italiane.
Professor Sbattella, da anni ormai una nuova emergenza prende il posto di un’altra: l’emergenza migranti, l’emergenza Covid, l’emergenza Ucraina, ora l’emergenza idrica, con già all’orizzonte una possibile emergenza energetica e una da vaiolo delle scimmie. Politica e società sembrano perennemente all’inseguimento. Con quali conseguenze?
Bisogna dire che c’è un grande abuso del termine “emergenza”. L’emergenza, nella legislazione italiana, è definita come una situazione straordinaria dove le risorse ordinarie messe in campo non sono sufficienti a rispondere ai bisogni di colpo accresciuti per intensità, ritmo o vastità. Faccio un esempio: in un condominio l’assemblea non si mette mai d’accordo per rifare la facciata; un giorno cade una mattonella, l’amministratore a quel punto è obbligato a chiamare una ditta edile: il prezzo sarà sicuramente più alto di quello che avrebbero chiesto di norma. Questo per dire che, anche per motivi economici, urlare all’emergenza ha grandi convenienze: c’è un bel libro di Naomi Klein sull’economia dell’emergenza. C’è anche un convenienza dal punto di vista mediatico: i media lavorano con le emozioni.
Come psicologi abbiamo imparato ad occuparci non delle emergenze che vengono dichiarate dai singoli, dai giornali o dalle istituzioni, bensì dei vissuti di tipo emergenziale delle persone. Faccio un altro esempio: anni fa, non riuscendo ad organizzare la raccolta dell’immondizia a Napoli – anche per i forti interessi della Camorra, come sappiamo – lo Stato italiano dichiarò un’emergenza rifiuti; fu mobilitata la Protezione Civile e, con questa, anche gli psicologi dell’emergenza. Questo è un chiaro esempio di emergenza dichiarata a livello nazionale, ma per motivi organizzativi ed economici. Immaginiamo un altro caso: una mamma che si reca al pronto soccorso con due bambini che hanno dei sintomi che non riesce a comprendere ed è molto preoccupata; lei, personalmente, dal punto di vista psicologico, ha dei vissuti emergenziali, sebbene magari i medici del pronto soccorso provino a rassicurarla.
Dal punto di vista psicologico l’emergenza non è una condizione esteriore, ma è la percezione di trovarsi davanti ad un pericolo incombente e di non avere le risorse per farvi fronte. Quando arriva il Covid e ti ammali e pensi di non avere strumenti, conoscenze, farmaci per affrontarlo, può diventare un’emergenza. Quando una comunità intera viene travolta da un ghiacciaio, da una frana o dall’eruzione di un vulcano attiva processi decisionali e comunicativi molto rapidi e molto diversi rispetto all’ordinario. Questa è la psicologia dell’emergenza: il modo in cui funziona la psiche dal punto di vista percettivo, emotivo, decisionale, comunicativo in contesti in cui la morte appare imminente e c’è la percezione che non ci siano tempo, risorse o strumenti per fronteggiarla. Questo tipo di situazione fa sì che le persone abbiano l’esigenza di chiedere aiuto. Spesso si domanda aiuto ai vicini, che siano i vicini di casa o la nazione vicina. Può essere un’esperienza per alcuni umiliante, per altri bella e innovativa, perché si scopre la solidarietà.
Parlava di percezione e del ruolo dei media nel riferire emergenze presunte – oppure reali, ma che vengono sfigurate o trasfigurate dalla narrazione che ne viene data. Che ruolo ha la comunicazione nel generare la percezione dell’emergenza?
Esattamente: il problema non è la minaccia in sé, che a volte è invisibile o che solo gli esperti riescono a valutare, ma è la percezione che si ha della minaccia. L’esempio di prima, la donna che si trova con i bambini che hanno forti sintomi di malessere: lei non comprende le cause di questi sintomi, ma percepisce un pericolo, potenzialmente mortale, nonostante le rassicurazioni dei medici. All’opposto, ci sono persone che, non vedendo con i propri occhi un virus, non lo ritengono reale o pericoloso, nonostante il parere degli esperti. Nel nostro mondo ci sono eventi, come terremoti e incendi, che sono direttamente percepibili ed altri, non meno pericolosi per la comunità civile e i singoli, che invece sappiamo vedere soltanto tramite degli strumenti, microscopi elettronici o telescopi nello spazio. Questo vale anche per il cambiamento climatico e per la guerra: ancora prima che siano visibili a tutti, gli esperti potrebbero indicarli come prossimi.
Questo pone questioni serie sulla comunicazione del pericolo incombente. È un compito molto delicato e può essere fatto in molti modi. Qual è la soglia tra allarmismo e corretta comunicazione? I media hanno un compito importante: sono stati cruciali nello spiegare alla gente il surriscaldamento del pianeta o che davvero il Covid uccide. Però i media hanno un problema di raggiungimento e mantenimento dell’attenzione dei loro target: un modo per attrarre l’attenzione è urlare, parlare alla pancia – o allo stomaco – lavorando con l’orrorismo, con la pornografia della morte. Questo, per motivi molto profondi, porta le persone ad essere coinvolte. Qui c’è un uso scorretto della comunicazione.
Nelle prime settimane di guerra, accanto al condivisibile sostegno all’Ucraina aggredita, abbiamo assistito ad un’esplosione di bellicosità, quasi la riproposizione di una retorica futurista da prima guerra mondiale. Una grande liberazione di energie represse da mesi di pandemia e isolamento. È realistico?
Ci sono diversi aspetti da considerare. Durante il Covid alcune persone hanno parlato dell’epidemia come di una guerra: invasione, presìdi, colpire, difenderci… Come ha scritto Susan Sontag nel saggio L’AIDS e le sue metafore, è molto pericoloso usare metafore di guerra in un contesto di malattia, perché suscitano un richiamo alle armi e un desiderio di aggredire e di uccidere. Il rischio, come avveniva anche con l’AIDS, è che ad essere aggrediti o colpevolizzati siano poi i malati, che diventano “untori”. È successo anche con il Covid.
Va poi detto che nei contesti di guerra c’è sempre un’operazione psicologica, che in varie forme e tempi si può chiamare guerra psicologica, propaganda, PSYOP (psychological operations, ndr). Nonostante le apparenze, la guerra psicologica è una guerra molto vera! Tutti i dipartimenti della difesa, la Russia come la Nato, hanno psicologi che preparano il terreno alla battaglia: terrorizzare le persone perché abbandonino le città, confondere il nemico, scoraggiarlo; ma anche acquisire consenso sul fronte interno: motivare le persone a partire come volontari oppure a pagare con le proprie tasse armi di distruzione in un’escalation che è senza fine. Questo tipo di operazioni, programmate e intenzionali, sono organizzate in Ucraina, in Europa, negli Stati Uniti, in Russia, in Bielorussia. Non si tratta più di buttare volantini dagli aerei: è sufficiente una fake news sui social perché cresca e permetta di ottenere lo stesso effetto.
A questo proposito, di fronte ad eventi difficili da governare, si genera apprensione, e non riflessione. Come è possibile mantenere un sano spirito critico anche nelle troppe “emergenze” del nostro tempo?
La diffusione di ansia continua fa gravi danni, anche a livello fisico e neurologico, e non solo nei bambini e negli adolescenti, ma anche negli adulti. L’essere continuamente bombardati da richiami emotivi non è costruttivo. Il consiglio, soprattutto in tempo di guerra o di pandemia, è di limitare la dimensione informativa, distribuendola al mattino o alla sera – un paio di telegiornali, uno sguardo alle notizie online, l’indispensabile per essere informati – e per il resto della giornata occuparsi di riflettere su ciò che si è letto o ascoltato e agire rispetto a questo. È molto importante prendersi degli spazi di approfondimento, davvero molto importante. Ai miei studenti, durante il Covid, ho chiesto di leggersi tre libri da 500 pagine l’uno. Una lettura impegnativa permette alla mente e alle emozioni di connettere, di digerire… Così è anche per la guerra.
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