La Parola, la Chiesa, il mondo. Commento al Vangelo di rito ambrosiano 25 aprile 2021

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Domenica 25 aprile 2021. IV Domenica di Pasqua. Anno B. Commento al Vangelo di rito ambrosiano, di don Paolo Alliata.


In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai Giudei: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
(Gv 10, 27-30)

Gesù disse, “Il regno è come un pastore che aveva cento pecore. Una di loro, la più grande, si smarrì. Lui lasciò le altre novantanove e la cercò fino a trovarla. Dopo aver faticato tanto le disse, ‘Mi sei più cara tu di tutte le altre novantanove’”.
(Vangelo apocrifo di Tommaso, 107)

Gesù era un appassionato del parlare per immagini. Diffusa nel contesto semitico era quella del rapporto tra le pecore del gregge e il loro pastore, per esprimere un rapporto stretto, di fiducia e confidenza. La principale accusa ripetutamente mossa dai profeti di Israele ai pastori del popolo (re, sacerdoti e falsi profeti) era di occuparsi del proprio tornaconto più che del bene delle pecore loro affidate.

Nella pagina di Giovanni, Gesù torna al conforto di quell’immagine. C’è tra me e i miei discepoli, dice, un rapporto paragonabile a quello tra gregge e pastore. “Io le conosco ed esse mi seguono”. Il pastore nutre il gregge: “Io do loro la vita eterna”. Allusione, forse, a quel salmo così amato: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (Sal 23).

Ma, pochi versetti prima, nello stesso discorso in cui è impegnato con alcuni giudei piuttosto diffidenti, Gesù ha esplicitato il loro indurimento: “Voi non credete, perché non siete mie pecore”. Non volete varcare la soglia della fiducia, di chi dà credito all’ascolto. Anche di loro aveva forse già parlato: “Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre, ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (10,16). Così Gesù allude agli stranieri, a coloro che non fanno parte di Israele, ma forse, chissà, anche a coloro che, in Israele, resistono alla sua parola di invito.

L’immagine del pastore e del gregge rimane importante per le prime generazioni dei discepoli di Gesù: si tramandano l’un l’altro la parabola della pecora smarrita (Lc 15,4-7).

In un tempo imprecisato (comunque entro la metà del II secolo) quella parabola confluisce anche in una raccolta apocrifa di 114 detti di Gesù: il Vangelo di Tommaso. Ma con una piccola, formidabile differenza. Nel detto riportato da Tommaso, il pastore va in cerca della pecora che si è smarrita perché è “quella più grande”, la più grassa, la migliore in termini commerciali. È questo il motivo per cui gli risulta preziosa: “Mi sei più cara tu di tutte le altre novantanove”. Nella versione di Luca non c’è nulla del genere. Anzi, una logica di questo tipo stravolge radicalmente il modo che Gesù ha di veder la cose. Per il pastore della parabola, come per Gesù che la racconta, la pecora è preziosa e va cercata per il solo fatto che si è perduta. Non ha altro titolo di diritto davanti al pastore: il suo bisogno di essere cercata.

Nell’arco di qualche decennio la parabola della pecorella smarrita subisce una profonda distorsione. Le comunità dei discepoli di Gesù (il Vangelo apocrifo di Tommaso è stato scritto da gente che si riconosceva discepola del Maestro) hanno inavvertitamente spostato il baricentro del racconto dalla cura del pastore alla qualità della pecora. Non può sorprenderci: è quel che avviene spesso nel cuore di chi cerca di seguire Gesù, ancora oggi. Non siamo al riparo da questo rischio. Sempre di nuovo siamo pecore smarrite.

La buona notizia è che il pastore è ancora in cerca delle sue pecore. Di quelle che resistono, che faticano ad ascoltarne la voce, la fraintendono, pur desiderandola. O che alle volte, semplicemente, trascurano di seguirla. Sempre di nuovo siamo pecore cercate.

È questa l’avventura di ogni seguace di Gesù. Su questo sentiero il Signore ci accompagni.

Don Paolo Alliata

Don Paolo Alliata. Nato a Milano nel 1971, dopo la laurea in Lettere classiche all’Università degli Studi di Milano, viene ordinato sacerdote nel 2000 dal card. Carlo Maria Martini. Attualmente è vicario della comunità pastorale Paolo VI per la parrocchia di Santa Maria Incoronata a Milano. Autore di testi teatrali sull’Antico e sul Nuovo Testamento, è responsabile dell’Ufficio per l’Apostolato Biblico della Diocesi di Milano. Fra le sue pubblicazioni, Dove Dio respira di nascosto. Tra le pagine dei grandi classici (Milano, Ponte alle Grazie, 2018) e C’era come un fuoco ardente. La forza dei sentimenti tra Vangelo e letteratura (Milano, Ponte alle Grazie, 2019). Da due anni le sue omelie sono raccolte su un canale YouTube.

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