Monumentale, spettacolare, eterna. (S)cambieremo la nostra storia con una voragine.
Il linguaggio della guerra va ben oltre la mera comunicazione: è un’arma sottile, che se non è in grado di cambiare la realtà – che resta fatta di sangue, morte e spreco – è capace di plasmarne la percezione. Le parole usate per descrivere il conflitto non sono mai neutre, tantomeno neutrali, ma piuttosto munizioni di una retorica armata che mira a giustificare l’azione bellica, a mascherarne la brutalità e spesso a togliere umanità all’avversario.
Termini come “intervento”, “azione militare”, “operazione speciale” assumono, in questo contesto, valenze che oscillano tra la pretesa di attribuire un falso ordine al caos – vecchio e nuovo – e quella di creare una narrazione eroica (o di inevitabile sacrificio). Il linguaggio diviene così uno strumento di manipolazione, in grado di far apparire il conflitto come una reazione legittima a una minaccia esistenziale, annacquando i dilemmi etici e le conseguenze stravolgenti della guerra.
Lo insegna il presidente statunitense Donald Trump, celebre per l’uso scriteriato delle iperboli, alla ricerca dei termini migliori per rivendicare una vittoria – la presunta riduzione del potenziale nucleare iraniano – ancora tutta da dimostrare, soprattutto sul lungo periodo. «Tutti i siti nucleari in Iran hanno subito danni monumentali, come dimostrano le immagini satellitari. Annientamento è il termine più appropriato!», scrive sulla propria piattaforma social Truth, “Verità”, che fa del mascheramento lessicale un marchio. D’altronde, siamo di fronte a quello che lo stesso Trump sceglie di definire «uno spettacolare successo militare».
Se Benjamin Netanyahu si attribuisce, senza mezzi termini, la capacità di «cambiare la storia» insieme a Donald Trump, il senso di responsabilità – e il senso critico – spingono ad interrogarsi sul linguaggio con cui la si sta riscrivendo. Tanto più che il grado di violenza, anche lessicale, è inversamente proporzionale alla disponibilità di contenuti: al diminuire di quest’ultima, cresce inevitabilmente la prima.
Il linguaggio della guerra incide profondamente sulla memoria collettiva e sull’identità culturale di un popolo. Le parole che raccontano un conflitto tendono a consolidarsi, contribuendo a una visione distorta o banalizzante degli eventi. Anche questa memoria linguistica non è mai neutra: piuttosto, è uno strumento per comprendere – oppure distorcere – il passato, e dunque orientare – oppure sviare – il futuro.
Nel denunciare su X quella che definisce «una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e del Trattato di non proliferazione nucleare», il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, promette che l’escalation della guerra il coinvolgimento degli Usa nel conflitto «avranno conseguenze eterne». Almeno per il momento, però, la reazione dell’Iran è «molto debole»: un modo trumpiano per riferirsi al ritrovato buon senso, se non all’esaurimento dell’arsenale bellico.
Certo l’eternità non è il tempo dell’uomo sulla terra, ma riflettere su questo aspetto significa interrogarsi su come il nostro modo di esprimerci può contribuire a perpetuare violenze, giustificare azioni inumane o, in alternativa, aprire spazi di critica, di consapevolezza e di guarigione. La presa di coscienza del potere delle parole – ben presente a chi, nel circo della politica, ne ha fatto una fonte di guadagno e un vantaggio elettorale – ci invita a sviluppare un pensiero critico attento, in grado di recuperare il vero dei fatti celato oltre le narrazioni ufficiali.
Colpisce – e fa riflettere – prendere atto che ciò che per alcuni è «monumentale», «spettacolare» ed «eterno», per altri – e a ragion veduta – corre il rischio di diventare «una voragine irreparabile». Parole scelte da Leone XIV per riferirsi allo «scenario drammatico che include Israele e Palestina» e, sempre più, anche l’Iran.
Colpisce, soprattutto, il divario sempre più dirupante fra la realtà e la sua narrazione. Il linguaggio della guerra, in grado di adattarsi al nostro come ad ogni tempo, si diffonde attraverso il veicolo digitale e le piattaforme di comunicazione globale, contagiando le nuove forme di informazione e disinformazione e obnubilando il peso delle parole. La sfida, dunque, è quella di riconoscere e decostruire tali meccanismi, per alimentare una cultura della pace in cui il linguaggio serva a comprendere e a risolvere le crisi, piuttosto che a propagarle. Con una banalità semantica dileggiante e omicida.
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