Serve olfatto per il discernimento, ma anche fiuto per i mutamenti. Cambio di scenografia in tre atti, andante ma non troppo.
Dall’odore delle pecore al discernimento per olfatto. È, quest’ultima, una virtù attribuita a papa Francesco, alla vigilia del Sinodo, da padre Antonio Spadaro, già direttore della Civiltà Cattolica e nuovo sottosegretario eletto del Dicastero per la cultura e l’educazione. «È un contemplativo nell’azione. Agisce per discernimento, quasi per olfatto», spiega padre Spadaro in un’intervista a Vida Nueva.
Non si tratta di un riconoscimento nuovo da parte di padre Spadaro: già nel 2021, riandando all’elezione di papa Francesco, Spadaro riconosceva che «un elemento apparentemente secondario che mi colpisce molto è il suo andare letteralmente a “fiuto”, facendo appello all’olfatto spirituale di cui Ignazio di Loyola parla nei suoi Esercizi Spirituali (n. 68)».
Odore di sinodalità
Nell’ambito della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, padre Spadaro è stato eletto membro della Commissone per l’informazione. Un ruolo quasi scontato per quello che la stampa ha più volte definito lo spin doctor della comunicazione vaticana, nel bene e nel male. Ma anche una posizione privilegiata, che ha visto Spadaro accompagnare con una buona dose di ottimismo il Sinodo, dalla certezza che «non si lascerà tutto come prima», fino allo spazio garantito «all’ascolto che ciascuno ha dedicato agli altri e anche all’interno dei tavoli dei gruppi», nell’ottica di una sinodalità che «deve diventare prassi della Chiesa».
Con minore bonomia e poco ornato eloquio, c’è però chi titola: «Padre Spadaro va al Sinodo. La triste parabola di un ex potente del Vaticano». Davvero un’uscita di scena, la sua? Piuttosto, un cambiamento di scenografia. Sono tre, infatti, gli atti che hanno accompagnato la conclusione di padre Antonio Spadaro alla direzione della Civiltà Cattolica e la futura esperienza al Dicastero per la cultura e l’educazione. Senza eccezioni, nello stile del pontificato di Francesco.
Gesù, il teologo
La canicola 2023 non ha regalato tormentoni estivi paragonabili a quelli delle liturgie rivierasche dello scorso anno, ma – si sa – la teologia non accende più gli animi come un tempo. Così è accaduto per un commento al Vangelo scritto nell’ultimo scorcio di ombrellone, il 20 agosto scorso, da Spadaro per il giornale italiano Il Fatto quotidiano. Il passo, del Vangelo secondo Matteo, è quello dell’incontro di Gesù con la donna cananea (Mt 15, 21-28).
Alcune espressioni quanto meno vivaci («Gesù resta indifferente», «Gesù non se ne cura», «segue la risposta stizzita e insensibile di Gesù», «la durezza del Maestro è inscalfibile», «risponde in maniera beffarda e irriguardosa nei confronti di quella povera donna», «una caduta di tono, di stile, di umanità») hanno suscitato più di una perplessità, e c’è chi senza mezzi termini le ha definite «eresia» e «bestemmie ereticali».
Visione ultra-umanizzata di Cristo? A ben guardare, al di là delle interpretazioni personali di padre Spadaro, la «rivoluzione» sta nella scelta di “forzare” dentro al testo molta della dottrina di papa Francesco sul clericalismo. Padre Spadaro ci prova con espressioni ricorrenti, ma qui fuori contesto, come «la misericordia non è per lei», «esclusione», «rigorismo teologico», «rigidità dagli elementi teologici, politici e culturali», nonché il concetto stesso di «rivoluzione», più o meno abusato dalla stampa nell’ultimo decennio in riferimento al pontificato di Francesco.
Dialoghi “privati” e censura curiale
Concetti che, non a caso, si rinvengono anche in un altro appuntamento fisso negli anni del pontificato di Francesco (e di Spadaro alla Civilità Cattolica): l’incontro “privato” con i Gesuiti in occasione dei viaggi apostolici, di cui la rivista di punta dei Gesuiti dà abitualmente conto con la pubblicazione di un resoconto del colloquio. L’ultima occasione è offerta dalla presenza del Papa in Portogallo per la Giornata mondiale della gioventù.
Nel raccomandare ai Gesuiti di non adeguarsi alle logiche della mondanità e dell’affermazione individuale, Francesco li invita ad aprirsi al dialogo con il mondo, «perché non potete vivere sottaceto». Sono tre i temi principali del discorso: sessualità, “indietrismo” di chi nella Chiesa guarda al passato e sinodalità. Ma molte di più sono le espressioni ricorrenti: «Io credo che sulla chiamata rivolta a “tutti” non ci sia discussione. Gesù su questo è molto chiaro: tutti», «attitudine reazionaria», «mentalità tutta irrigidita e squadrata», «rifiuto», «censura curiale che bloccava le cose». Déjà-vu?
Fernández e i garanti della fede
Giunti al terzo atto, non poteva mancare di fare la sua comparsa uno dei personaggi più dibattuti degli ultimi mesi: il neo-card. Víctor Manuel Fernández, prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, della Pontificia commissione biblica e della Commissione teologica internazionale. Un protagonista in ascesa della Chiesa, secondo alcuni depositario privilegiato del sentire teologico e pastorale di papa Francesco, conosciuto da padre Antonio Spadaro nel 2014, quando il “Tucho” era rettore presso la Pontificia Università Cattolica argentina.
Talvolta si colloca «al centro della Chiesa “una” certa ragione, una serie di princìpi che reggono tutto, anche se si tratta in definitiva di una forma mentis, più filosofica che teologica, alla quale tutto il resto deve sottomettersi, e che alla fine prende il posto della Rivelazione», spiega il card. Fernández in una lunga intervista con padre Spadaro per La Civiltà Cattolica. «Soltanto loro sarebbero “seri”, “intelligenti”, “fedeli”. Ciò spiega il potere che si arrogano alcuni ecclesiastici, arrivando a stabilire ciò che il Papa può o non può dire, e presentandosi come garanti della legittimità e dell’unità della fede».
Tema decisivo, una volta di più, è la relazione fra dottrina e società. «Non c’è posto per i complessi d’inferiorità nei confronti del mondo: prevalgono il più legittimo apprezzamento e la gratitudine di sentirci toccati dalla Grazia, privilegiati da questo dono fatto dal Signore alla sua Chiesa», precisa il card. Fernández. «Come era solito dire san Giovanni Paolo II in vario modo, bisogna sviluppare “il massimo dialogo con la massima identità”». Sacrosanto. Nella speranza che il mondo, nel frattempo, non finisca con il convincerci che anche la nostra è, tutt’al più, un’identità fluida.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.