Una morte da Papa

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«Siamo in buona compagnia. Io tengo sempre vicino al mio letto la fotografia che raccoglie coi loro nomi scritti sul marmo, tutti i nostri morti». A mettere nero su bianco queste parole, con una macchina da scrivere «nuova e tutta per me» è papa Giovanni XXIII, in quello che è considerato il suo testamento spirituale alla famiglia Roncalli: una lettera inviata dal Papa al fratello Zaverio il 3 dicembre 1961, ad un anno e mezzo dalla propria morte.


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«Che bel coro di anime che ci aspettano e pregano per noi», prosegue Giovanni XXIII nella lettera. «Io penso a loro sempre. Il ricordarli nella preghiera mi dà coraggio e mi infonde letizia nella fiduciosa attesa di congiungerci a loro tutti insieme nella gloria celeste ed eterna».

Il pensiero della morte corporale – cui ci richiamano gli imminenti appuntamenti dell’1 e 2 novembre – accompagna l’intera vita di Giovanni XXIII, rischiarato dalla fede e da una serena saggezza bergamasca. Tanto più deve sembrare naturale in Benedetto XVI, a giudicare dalle frasi che si sono rincorse sui media internazionali in queste ore, quasi fossero una singolarità eccezionale. «Ora è arrivato nell’aldilà, dove molti amici lo stanno sicuramente aspettando. Spero di potermi unire presto a loro», scrive il Papa emerito dopo aver appreso della morte di un suo caro amico, il «più vicino», padre Gerhard Bernhard Winkler, in una lettera di condoglianze inviata all’abate della comunità cistercense austriaca di Wilhering. Occasione per rinfocolare le voci che – almeno dal 2013 – vorrebbero Joseph Ratzinger prossimo alla morte. «Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto», si potrebbe ben dire, applicando a Ratzinger la singolare boutade di papa Francesco che tanto ha fatto parlare di sé.

«So di invecchiare, con tanto rumore che si è fatto per i miei 80 anni compiuti», scrive ancora Giovanni XXIII nella lettera a Zaverio, affettuosamente chiamato Severo, uno dei 12 tra fratelli e sorelle di Roncalli. «Gli 80 anni passati dicono a me, come a te caro Severo, e a tutti i nostri, che ciò che più conta è di tenerci ben preparati e sempre a partire d’improvviso». Senza lesinare qualche frecciatina: «Ha ragione il nostro Giuseppino quando dice a suo fratello Papa: “Voi qui siete un prigioniero di lusso che non può fare tutto ciò che vorrebbe”».

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Un’aria più istituzionale, sebbene di profonda devozione, si respira nei numerosi testamenti formali di Angelo Roncalli, il primo dei quali redatto nel 1925, anno della sua consacrazione episcopale, cui seguono aggiornamenti a Istanbul, a Parigi, a Venezia e a Roma. Il susseguirsi di espressioni quali «Sul punto di ripresentarmi al Signore Uno e Trino», «Partendo, come confido, per le vie del Cielo», «Rammento bene in faccia alla morte, tutti e ciascuno», «Nell’ora dell’addio, o meglio, dell’arrivederci» chiariscono la quieta familiarità di Giovanni XXIII con la propria morte. La stessa che lo spinge a scrivere, nell’ultimo testamento del 1961, «Aspetto e accoglierò semplicemente e lietamente l’arrivo di sorella morte secondo tutte le circostanze con cui piacerà al Signore di inviarmela».

Quella del testamento, più o meno spirituale, è una prassi che accomuna i pontefici. Ognuno secondo il proprio stile. Stringato quello di Pio XII, nel testamento datato 15 maggio 1956. «Non ho nemmeno bisogno di lasciare un “testamento spirituale” – scrive papa Pacelli – come sogliono lodevolmente fare tanti zelanti Prelati; poiché i non pochi Atti e discorsi, da me per necessità di officio emanati o pronunziati, bastano a far conoscere, a chi per avventura lo desiderasse, il mio pensiero intorno alle varie questioni religiose e morali». E che non si parli di monumenti alla memoria: «Basta che i miei poveri resti mortali siano deposti semplicemente in luogo sacro, tanto più gradito quanto più oscuro».

«Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia», scrive Paolo VI nell’incipit del proprio testamento, redatto 13 anni prima della morte. «Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza». Il documento di Montini è un inno alla vita e alla grazia, delle quali essere riconoscenti tanto più «ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena».

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Colpisce lo sguardo di amore e preoccupazione rivolto alla Chiesa e al mondo. Scrive Paolo VI: «Congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio dovrei dire tante cose, tante. Sullo stato della Chiesa: abbia essa ascolto a qualche nostra parola, che per lei pronunciammo con gravità e con amore. Sul Concilio: si veda di condurlo a buon termine, e si provveda ad eseguirne fedelmente le prescrizioni. Sull’ecumenismo: si prosegua l’opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza, con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica. Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo». Parole di straordinaria attualità.

Pressante è la preoccupazione circa i propri funerali. «Siano pii e semplici (si tolga il catafalco ora in uso per le esequie pontificie, per sostituirvi apparato umile e decoroso). La tomba: amerei che fosse nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me», scrive Paolo VI. «Non desidero alcuna tomba speciale», aggiunge nel 1972; e ancora, nel 1973: «Desidero che i miei funerali siano semplicissimi e non desidero né tomba speciale, né alcun monumento. Qualche suffragio (beneficenze e preghiere)».

Decisamente più ampio è il testamento di Giovanni Paolo II, più volte rivisto in coincidenza degli esercizi spirituali. «Durante gli esercizi spirituali ho riletto il testamento del Santo Padre Paolo VI. Questa lettura mi ha spinto a scrivere il presente testamento», scrive Wojtyla nel 1979. Riferendosi alla propria morte, precisa: «Non so quando esso verrà, ma come tutto, anche questo momento depongo nelle mani della Madre del mio Maestro: Totus Tuus». Insieme alla frase divenuta celebre nelle commuoventi ore della sua morte, il 2 aprile 2005: «Ringrazio tutti. A tutti chiedo perdono».

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Di grande interesse è la prospettiva con la quale Giovanni Paolo II si accosta alla propria morte, anche in considerazione del proprio ministero. «Desidero ancora una volta totalmente affidarmi alla grazia del Signore. Egli stesso deciderà quando e come devo finire la mia vita terrena e il ministero pastorale». Trascorrono due anni, e nel 1982 l’allora Pontefice aggiunge: «L’attentato alla mia vita, il 13 maggio 1981, in qualche modo ha confermato l’esattezza delle parole scritte nel periodo degli esercizi spirituali del 1980. Tanto più profondamente sento che mi trovo totalmente nelle Mani di Dio».

Anche il Giubileo del 2000 è un’occasione per tornare a riflettere sulla propria vita e sulla sua conclusione. «La Divina Provvidenza mi ha salvato in modo miracoloso dalla morte. Colui che è unico Signore della vita e della morte Lui stesso mi ha prolungato questa vita, in un certo modo me l’ha donata di nuovo. Da questo momento essa ancora di più appartiene a Lui. Spero che Egli mi aiuterà a riconoscere fino a quando devo continuare questo servizio». Senza dimenticare una pragmatica constatazione suggerita dall’età. «Quante persone dovrei qui elencare! Probabilmente il Signore Dio ha chiamato a Sé la maggioranza di esse».

Insomma, come ha ricordato papa Francesco, la morte è «un fatto, un’eredità e una memoria» che rende chiaro come non siamo «padroni del tempo», né «effimeri» né «eterni». Ma che è proprio lo sguardo sulla morte che aiuta a vivere bene la vita. «Se avessi saputo che morire è così bello», si dice furono le ultime parole di Karl Valentin, cabarettista e attore teatrale tedesco. Caro a Joseph Ratzinger.

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