«I silenzi, le omissioni, il dare troppo peso al prestigio delle istituzioni conducono solo al fallimento personale e storico, e ci portano a vivere con il peso di “avere scheletri nell’armadio”, come recita il detto». Così scriveva il 10 giugno scorso papa Francesco al card. Reinhard Marx nella lettera con cui rigettava le dimissioni presentate dal porporato tedesco. Una riflessione che il Pontefice applicava alla criminale vicenda degli abusi sessuali su minori e al seguito di scandali e di gestione spesso non trasparente da parte della Chiesa.
La medesima riflessione si potrebbe applicare anche ad altri contesti. «Il “mea culpa” davanti a tanti errori storici del passato – scriveva nella stessa lettera Francesco – lo abbiamo fatto più di una volta dinanzi a molte situazioni anche se non abbiamo partecipato di persona a quella congiuntura storica».
Una disposizione che accomuna i pontificati di Francesco e Benedetto XVI, inaugurata da Giovanni Paolo II in riferimento a molte pieghe dolorose della storia: dalle crociate agli ostacoli posti alla piena realizzazione delle donne, dall’acquiescenza di fronte allo schiavismo e all’Olocausto fino alle azioni a danno dell’unità dei cristiani, alle persecuzioni dei dissidenti e alle passività verso le tante ingiustizie contro i poveri, gli ultimi, le etnie minoritarie.
Si potrebbe continuare: sono almeno un centinaio i passaggi in cui Giovanni Paolo II invita a riflettere sulle pagine oscure della storia, anche della Chiesa, e decine quelli in cui chiede perdono. Se fra i momenti più ricordati c’è la Giornata del perdono dell’Anno Santo 2000, non meno esplosivo è il «profondo rincrescimento» manifestato da papa Wojtyla l’anno successivo in Grecia per il «saccheggio disastroso della città imperiale di Costantinopoli» del 1204, perpetrato dai cristiani latini durante la quarta Crociata. Fatti vecchi di secoli, si potrebbe obiettare: nondimeno, ancora vivissimi nella memoria e in grado di mutare profondamente la natura di un incontro in avvio molto formale, ma conclusosi con una preghiera comune e commossa.
È il senso profetico del perdono, dato e chiesto. È lo spirito missionario di muoversi su terreni nuovi, inesplorati, per i quali fare da apripista, talvolta pagandone il prezzo. Tutt’altro che un atto di debolezza, il perdono è condizione per guarire la coscienza personale e collettiva da ogni forma di rancore e di violenza che il passato può avere lasciato in eredità. «Dobbiamo farci carico della storia, sia personalmente sia comunitariamente», scrive con onestà Francesco a Marx.
«Il peso di “avere scheletri nell’armadio”, come recita il detto». È quanto accade da settimane in Canada, dopo il ritrovamento dei resti di centinaia di bambini in tombe anonime presso i siti di diverse scuole cattoliche: British Columbia e Saskatchewan, ma è notizia confermata delle scorse ore la scoperta di nuovi resti nei pressi dell’isola di Vancouver.
“Scuole residenziali per i nativi”, una delle ferite più dolorose della storia del Canada, che accomuna diverse Chiese cristiane, compresa la Chiesa cattolica. Fanciulli spesso sottratti alle famiglie per essere educati secondo i modi dell’Occidente, che, in base a quanto si legge nel vademecum pubblicato dall’arcidiocesi di Toronto, sarebbero morti per lo più di tubercolosi, influenza e polmonite, ma anche per la pandemia di “Spagnola”.
Non certo un genocidio premeditato, come avanzato da certa stampa sensazionalista, ma una tragica forma di “genocidio culturale” originatosi dall’adesione di alcune strutture cristiane (la Chiesa cattolica fu coinvolta attraverso alcune congregazioni) ad un programma del governo federale che aveva la pretesa di assimilare i popoli nativi. Atmosfere affini a quelle evocate nei mesi scorsi, in maniera scomposta, dal movimento iconoclasta cresciuto all’ombra dell’attivismo di “Black Lives Matter” e giunto in Europa dagli Stati Uniti dopo aver pagato lo scotto in termini di spirito critico e discernimento.
Nondimeno, per la Chiesa in Canada quella delle scuole residenziali per i nativi fu una drammatica confusione fra la cultura occidentale e la libertà e vastità del vangelo di Cristo, che assunse la forma di un imperialismo culturale, etnico, linguistico e religioso, con le pessime condizioni sanitarie a fare il resto. Senza dubbio fasi storiche figlie di un tempo passato, di atteggiamenti e di mentalità che da allora – auspicabilmente – sono molto cambiati. Ma anche pagine poco note, se è vero che soltanto il 10% dei canadesi oggi ne ha una conoscenza approfondita, sebbene già nel 2009 Benedetto XVI avesse rivolto ufficialmente un pensiero di dolore, perdono e partecipazione ai Popoli nativi del Canada.
Eppure storia che erompe, mescolandosi alle molte dinamiche dell’attualità. Quella degli incendi appiccati ad alcune chiese cattoliche in Canada in seguito all’esplosione del caso, storico e mediatico. Quella anacronistica del ministro dei servizi indigeni del governo Trudeau, Marc Miller, che ha chiesto a papa Francesco di presentare scuse formali per il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel sistema scolastico residenziale per conto del governo canadese del tempo. Quella dell’arcivescovo di Ottawa-Cornwall, mons. Marcel Damphousse, che sostiene che «come Chiesa abbiamo fallito», secondo un linguaggio ricorrente da qualche tempo a questa parte.
Quella, ancora, del Santo Padre, che ha espresso «dolore» e «vicinanza» in seguito alla «sconvolgente scoperta», una «scioccante notizia» che «accresce ulteriormente la consapevolezza dei dolori e delle sofferenze del passato». Quella dell’Assemblea delle First Nations (Prime Nazioni, i popoli autoctoni né Inuit né Métis), che ha concordato la visita di alcuni rappresentanti a dicembre in Vaticano, si dice nell’aria già da un paio d’anni. Quella, infine, di un’opinione pubblica e mediatica canadesi incattivite dagli insabbiamenti di abusi sessuali, con una Chiesa che anche in Canada è segnata dal crollo delle vocazioni e del “gradimento” e colpita dalle molte richieste di risarcimento (11,6 milioni di dollari saranno versati dai soli Servi di Maria dopo un’azione legale collettiva intentata da vittime di abusi).
Una situazione che ricorda quella verificatasi nel 2017 in Irlanda. Nel Paese, roccaforte del cattolicesimo in via di smantellamento, si era allora alle prese con la revisione della legge sull’aborto, indicata come colpevolmente restrittiva da Onu e Amnesty International, e con un feroce campagna mediatica diretta contro la Chiesa cattolica. Ad esacerbare il clima di tensione di quei giorni giunse il caso della “St. Mary home” per madri non sposate e bambini a Tuam, Irlanda Occidentale, attiva fra il 1925 e il 1961. La Casa era parte di un progetto statale in virtù del quale le religiose venivano pagate per ciascuna madre e bambino in accoglienza. Nel 2017, dopo anni di voci e di sospetti (anche rispetto ad alcune recenti adozioni illegali indirizzate verso gli Stati Uniti), i resti di numerosi fanciulli vennero rinvenuti sepolti nei cunicoli del sistema fognario di epoca vittoriana al di sotto della struttura: nessun omicidio confermato, ma un tasso di mortalità ben più alto della norma, per lo più a causa della mancanza di cure adeguate. «Il peso di “avere scheletri nell’armadio”, come recita il detto».
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