Colpire siti culturali in Iran per vendicare un episodio di 40 anni fa? Né una prima volta né un primato per Donald Trump. Che ha un rapporto singolare con la storia.
Più di 2.300 anni fa Persepoli, allora capitale di un impero fiorente, venne distrutta dalle fiamme e dai saccheggi che accompagnarono l’avanzata delle truppe di Alessandro Magno. Nel 1979 le sue rovine, insieme a Piazza Naqsh-e jahàn a Isfahan e alle ziqqurat di Choqa zanbil, furono fra i primi tre siti dell’Iran ad essere inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Oggi questi stessi luoghi potrebbero essere a rischio, se inclusi nell’elenco dei «52 siti iraniani, alcuni di livello molto alto e importanti per l’Iran e per la cultura dell’Iran» che Donald Trump ha minacciato via Twitter di «colpire molto velocemente e molto duramente». Cinquantadue obiettivi, come 52 furono gli americani presi in ostaggio dall’Iran «molti anni fa», come scrive il presidente statunitense.
I fatti rievocati da Trump si riferiscono ad un episodio avvenuto nelle prime fasi della Rivoluzione iraniana che alla fine degli anni ’70 del secolo scorso trasformò la monarchia del Paese mediorientale nell’attuale Repubblica islamica sciita. Era il 4 novembre 1979 quando un gruppo di 300-400 studenti, sostenitori della Rivoluzione di Khomeini, occupò l’ambasciata statunitense a Teheran, prendendo in ostaggio oltre una sessantina di americani. Fra le richieste, l’immediata estrasizione di Mohammad Reza Pahlavi, ultimo scià di Persia. Alcuni degli ostaggi vennero rilasciati in breve tempo, mentre 52 di loro vennero trattenuti prigionieri per 444 giorni, fino al 20 gennaio 1981. I 52 che Trump pretenderebbe oggi di vendicare, a modo suo. Un modo che, nella migliore delle ipotesi, si fermerà al bullismo digitale.
È molto probabile, infatti, che le implicazioni di una dichiarazione come quella diffusa da Trump tramite i social non siano state del tutto comprese da parte dello stesso presidente. La distruzione di siti culturali non è soltanto una pratica già condannata dalla comunità internazionale, Stati Uniti compresi, ma costituisce una violazione delle leggi internazionali a protezione dei luoghi di interesse storico e archeologico in contesti di guerra.
Lo Statuto del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia è stato il primo ad indicare espressamente come crimine di guerra il sequestro, la distruzione e il danneggiamento deliberato di monumenti storici, religiosi, artistici, scientifici o aventi scopi caritativi. Per questo crimine sono stati condannati, fra gli altri, Pavle Strugar e Miograd Jokić, responsabili nel 1991 del bombardamento della Città vecchia di Dubrovnik. Anche lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale contempla fra i crimini di guerra l’attacco alle medesime categorie di edifici. Nel 2016 Ahmad Al Faqi Al Mahdi, membro di una milizia islamista tuareg nel Nord Africa, è stato giudicato colpevole della distruzione della Porta sacra della moschea di Sidi Yahia e di nove mausolei a Timbuktu nel 2012. La distruzione intenzionale di beni culturali non utilizzati per scopi militari può anche costituire una forma di persecuzione, e dunque un crimine contro l’umanità, così come una prova dell’esistenza del dolo specifico richiesto per il crimine di genocidio. Ad arricchire drammaticamente la girisprudenza internazionale ha contributo negli ultimi anni le azioni criminali dell’Isis in Siria, da Palmira a Mosul.
Attualmente sono 24 i siti Patrimonio dell’umanità riconosciuti dall’Unesco in Iran, 22 culturali e 2 naturali (qui l’elenco completo), e alcuni di questi potrebbero essere inclusi nel presunto elenco di Trump. Oltre a Persepoli, sulla quale in queste ore si sta concetrando l’attenzione dei commentatori internazionali, l’Unesco tutela diversi luoghi della spiritualità islamica, come la Moschea del Venerdì di Isfahan, ma anche cristiana. È il caso del complesso monastico costituito dai monasteri di San Taddeo e di Santo Stefano e dalla Cappella di Dzordzor, tutti nel Nord-Ovest dell’Iran. Il monastero di San Taddeo, il più antico dei tre siti, risale addirittura al VII secolo, ed è tuttora meta di pellegrinaggi nella Chiesa apostolica armena.
Il rapporto di Donald Trump con la storia è quantomeno singolare. Rievocare un episodio di 40 anni fa per giustificare delicate – e quantomeno opinabili – decisioni del presente non costituisce né una prima volta né un primato per Donald Trump. Bisogna, infatti, andare indietro di quasi 80 anni per trovare le ragioni con le quali il presidente statunitense ha giustificato, nell’ottobre scorso, il mancato intervento degli Stati Uniti al fianco dei Curdi, minacciati dall’avanzata turca nel Nord della Siria: l’assenza di curdi durante lo sbarco in Normandia nel 1944. E poco importa se, allora come oggi, i Curdi non costituiscano un’entità statale propriamente intesa, in grado di prendere parte alla seconda guerra mondiale. In un’epoca di dichiarazioni lampo e pensiero liquido, per non dire impalpabile, le nubi di guerra sembrano in grado di oscurare sempre più non solo il presente, ma anche la storia.
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