Agostino e Ignazio. Il cinema senza supereroi di Leone XIV e Francesco

Leggi in 7 minuti

Il ritorno in sé stessi di La vita è meravigliosa e la grazia che dà un senso al dolore di La strada. I film preferiti da papa Leone XIV e Francesco ci parlano di fede. Bresolin: «La bellezza non è perfezione, ma armonia tra le crepe».

Ascolta l'articolo

La vita è meravigliosa di Capra, Tutti insieme appassionatamente di Wise, Gente comune di Redford e La vita è bella di Benigni. Mezzo secolo di cinema, dal 1946 al 1997, fra Stati Uniti e Italia, tratteggiata dai film preferiti di Leone XIV, rivelati dallo stesso pontefice in vista dell’incontro con attori e registi del prossimo 15 novembre.

Pellicole accomunate da un’idea luminosa e profonda: la vita ferita può ancora essere salvata dall’amore. Anche nel dolore e nella perdita, la speranza è al tempo stesso un dono e una scelta, attraverso cui ritrovare un motivo per vivere e credere. È l’amore – familiare, coniugale o comunitario – che redime e rimette ordine nel caos.

Storie di resurrezione interiore, dove la bontà e l’affetto restituiscono senso alla vita proprio quando sembrava perduta. In questo c’è molto della migliore tradizione cinematografica americana per il primo pontefice statunitense, ma anche Agostino d’Ippona: il ritorno in sé stessi per incontrare Dio, la verità e la propria identità profonda.

Così come c’è di Ignazio di Loyola nel cinema che fu prediletto da papa Francesco: grazia che si manifesta nel dolore e redenzione attraverso l’amore gratuito. È Il nucleo umano e spirituale di La strada di Fellini, Roma città aperta di Rossellini e I bambini ci guardano di De Sica, ma anche di Il pranzo di Babette di Axel, Rapsodia d’agosto di Kurosawa e Andrej Rublëv di Tarkovskij. Un realismo intriso di spiritualità, dove l’emarginazione è fatta luogo di rivelazione del Mistero, grazia e dono silenzioso.

Leggi anche:  Va in scena il sionismo cristiano. E non è un bello spettacolo

«È il fascino del sacro, che non impone, ma attira. Che non si spiega, ma si intuisce. In questo senso, Roma continua a offrire al cinema un linguaggio simbolico potente». Ne parlo con Alice Bresolin, filosofa ed esperta di cinema di origini brasiliane, assistente di progetto presso l’Istituto di studi superiori sulla donna dell’Ateneo pontificio Regina Apostolorum.

Roma è stata definita “la Hollywood sul Tevere”, ma è anche città sacra e simbolica. In che modo il cinema e la città di Roma raccontano l’umano e il divino?

Il cinema a Roma ha la capacità unica di farci sentire che l’umano e il divino non sono due mondi separati, ma due domande che abitano lo stesso cuore. In una città come Roma, dove ogni pietra parla di storia, il cinema diventa uno specchio in cui l’uomo si guarda e si cerca.

La bellezza della città si intreccia con la memoria spirituale in modo tale che il sacro non è solo un tema, ma un’atmosfera. È qualcosa che si respira nei silenzi e nello stupore impresso sui volti dei turisti e pellegrini che la attraversano. Il cinema ha saputo cogliere questa presenza discreta, raccontando l’umano come apertura al mistero. È il fascino del sacro, che non impone, ma attira. Che non si spiega, ma si intuisce.

In questo senso, Roma continua a offrire al cinema un linguaggio simbolico potente: le sue rovine, le sue chiese, i suoi tramonti diventano metafore dell’anima. E il cinema romano, nel raccontare l’umano, lascia sempre aperta una porta sull’oltre. Perché il bello, quando è autentico, porta con sé una nostalgia di infinito.
Ricordiamo ciò che diceva Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. E Roma è certamente bellissima.

Leggi anche:  Come seminatori che scompaiono

Il cinema può essere una forma di filosofia visiva? In che modo le narrazioni nate a Roma possono ancora offrire un “mito condiviso” capace di parlare al cuore dell’uomo contemporaneo?

Un mito condiviso, oggi, non è una favola da credere, ma una storia in cui riconoscersi. E il cinema può diventare uno spazio in cui sentirci meno soli nelle nostre domande e, forse, più umani nella nostra ricerca. Non è più il mito degli eroi invincibili, ma quello di uomini e donne che, pur nella fragilità, sono disposti a costruire qualcosa insieme.

Forse è questo che spiega la popolarità dei film di supereroi negli ultimi anni: non si tratta tanto di avere poteri speciali, quanto della capacità di collaborare, di diventare davvero se stessi, integrando i propri limiti e quelli degli altri, con il desiderio sincero di orientarsi verso il bene.

In un tempo segnato dalla frammentazione e dalla perdita di riferimenti comuni, l’uomo continua a cercare storie che lo aiutino a capire se stesso e il proprio posto nel mondo. Il cinema, in questo senso, è un laboratorio di umanità.

Papa Leone XIV ha parlato di una «pace disarmata e disarmante». Come può il linguaggio cinematografico contribuire a costruire una “cultura dell’incontro”, capace di unire mondi apparentemente distanti come fede, arte e pensiero critico?

Il cinema può essere un potente strumento di “cultura dell’incontro”, come auspicato da Papa Leone XIV. Non solo ci intrattiene, ma ci mette in relazione con storie, volti e culture che non conosciamo. È un modo per “visitare” luoghi lontani e ascoltare voci diverse, aprendoci alla possibilità di comprenderci meglio a vicenda.

L’incontro autentico genera stupore e gratitudine davanti all’altro, alla sua unicità irripetibile. Quando vissuto in profondità, questo atteggiamento ci educa all’apertura e alla disponibilità a lasciarci cambiare. In questo senso, il cinema può diventare un ponte tra linguaggi, culture e generazioni. Un luogo in cui l’uomo si scopre fratello e cercatore di senso.

Leggi anche:  Meglio 100 giorni da Leone

Il linguaggio cinematografico ha la forza di rendere visibile l’invisibile: le ferite, le speranze, le domande profonde che abitano ogni uomo. Quando il cinema si fa attento all’altro, quando dà voce a chi non ha voce, diventa un atto di giustizia e di solidarietà. È così che può disarmare: non con slogan, ma con storie che toccano il cuore e aprono alla comprensione reciproca.

Roma non è solo una città, ma un simbolo. Cosa rappresenta oggi per chi è in cerca di senso, bellezza e verità, in un tempo che sembra aver smarrito le grandi narrazioni?

Roma è, per me, una metafora dell’identità personale: complessa, stratificata, ma ancora capace di bellezza. La sua storia può essere letta come una narrazione vivente: gli imperatori cadono, le facciate cambiano, si costruiscono nuovi palazzi, eppure qualcosa, nel cuore della città, resta fedele alla sua originalità. È proprio il modo in cui riesce a integrare tanta storia che la rende così unica. In fondo, anche la nostra vita è così.

In un tempo che ha smarrito le grandi narrazioni, Roma ci ricorda che diventiamo ciò che siamo facendo un cammino. Che la bellezza non è perfezione, ma armonia tra le crepe. Che il senso non si impone, ma si scopre. Roma è, in fondo, un invito a non smettere di camminare: un giorno arrivano i barbari, ma poi vengono le stagioni del rifiorire, e vediamo l’inizio di nuove tappe e opportunità.

Così, possiamo proseguire il cammino come pellegrini guidati dalla speranza, fiduciosi che la vita meriti di essere vissuta e sia un’avventura degna di essere raccontata.

Restiamo in contatto

Iscriviti alla newsletter per aggiornamenti sui nuovi contenuti

© Vuoi riprodurre integralmente un articolo? Scrivimi.

Sostieni Caffestoria.it


Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.