Karakosh, l’isola cristiana sommersa

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Era il 7 agosto dello scorso anno quando Karakosh, nel nord dell’Iraq, cadeva nelle mani dell’Isis. Ad oltre cinque mesi dall’invasione, di quest’isola cristiana senza alberghi restano la memoria e le chiese spogliate, trasformate in camere di tortura.

La più grande isola della Cristianità nell’oceano islamico. Così ha definito la sua Karakosh monsignor Barnaba Yousif Benham Habash, 63 anni, da quattro eparca di Nostra Signora della Liberazione di Newark (New Jersey), sede della Chiesa cattolica sira immediatamente soggetta alla Santa Sede. Un legame stretto, quello fra questa eparchia statunitense e la città irachena: non solo perché il predecessore di monsignor Habash, Ignace Joseph III Younan, è dal 2009 patriarca di Antiochia, ma soprattutto perché lo stesso Habash è nativo di Karakosh. «Un patriarca siro-cattolico – ha dichiarato l’eparca in una intervista rilasciata alcuni giorni fa al National Catholic Register – ha fatto riferimento a Karakosh come all’occhio destro della Chiesa». Nelle sfumature della lingua aramaica, qualcosa di prezioso, di insostituibile.

Nota anche come Bakhdida o Al-Hamdaniya, Karakosh si trova nel nord dell’Iraq, ad una trentina di chilometri da Mossul e a poca distanza dalle rovine dell’antica Ninive. Area di precoce cristianizzazione, quella della Piana di Ninive, e Karakosh non faceva eccezione: in città il Cristianesimo non era solo religione di maggioranza, era la fede di pressoché la totalità della popolazione. Prima delle violenze dell’Isis, infatti, oltre il 96% dei residenti apparteneva alla Chiesa cattolica sira e la restante parte alla Chiesa ortodossa siriaca.

Una percentuale cresciuta nei secoli anche grazie all’immigrazione di cristiani in fuga dalle guerre e dalle persecuzioni che nel corso della storia colpirono altre città dall’area, da Mossul a Tikrit, per mano di Persiani e Curdi. L’avvicinamento al cattolicesimo e alla Santa Sede si consolidò nel corso del XVI secolo, grazie all’opera congiunta di missionari occidentali e gruppi di giacobiti locali in comunione con Roma, per lo più attraverso il monastero di Mar Bihnam, ponendo localmente le basi di quella che nell’Ottocento sarebbe divenuta la Chiesa cattolica sira nella regione. Con oltre 50mila abitanti prima dell’ingresso dell’Isis e località di transito e soggiorno, Karakosh è sempre stata un punto di riferimento nell’area. Eppure a Karakosh non esistono alberghi. «Non è sorprendente? Quando le persone visitano gli ospedali, le scuole, i luoghi dello shopping, vengono ospitate nelle nostre case come parte della famiglia. Lo facciamo con piacere, per loro», spiega monsignor Habash. Loro sono anche e soprattutto i musulmani venuti da fuori. «È parte della nostra educazione e morale cristiana accettare gli altri e dare testimonianza della nostra fede».

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Karakosh è una città ricca di storia e memorie, anche archeologiche. I numerosi scavi condotti nell’area sin dal XIX secolo hanno riportato alla luce rovine e manufatti assiri e delle diverse civiltà succedutesi nella regione. Molte di quelle che oggi appaiono rovine un tempo erano i palazzi, le fortezze, i templi e i luoghi di sepoltura dell’antica città di Nimrud (Kalhu, Calah in Gen 10,10), capitale dell’impero assiro durante il regno di Assurnasirpal II (884-859 a.C.) e ancora per circa un secolo. Le chiese di Karakosh offrono preziose testimonianze di fede e arte del primo Cristianesimo. Sebbene più volte ricostruito, il più antico fra gli edifici di culto cattolici in città è la chiesa intitolata alla Vergine Maria, menzionata in fonti documentarie risalenti alla prima metà del XII secolo. Ancora più antica la chiesa siro-ortodossa dei santi Sergio e Bacco, edificata per la prima volta nel VI-VII secolo.

Ora, come riferito da sacerdoti fuggiti dalla città, alcune di quelle stesse chiese sono utilizzate dagli jihadisti dell’Isis come prigioni e camere di tortura. «Tutti i 50mila abitanti hanno dovuto abbandonare la città», denunciava nell’agosto scorso monsignor Yousif Thomas Mirkis O.P., arcivescovo di Kerkūk dei Caldei. I Frati predicatori ai quali appartiene avevano allora recentemente celebrato i 250 di presenza a Karakosh. Molti degli abitanti in fuga hanno raggiunto a piedi Sulaymaniyah o Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, ritenute località più sicure, ma alcuni cristiani sono rimasti in città, in balìa delle efferatezze dell’Isis.

Nella Piana di Ninive gli islamisti hanno occupato chiese e conventi, abbattuto croci, distrutto statue mariane e campanili e imposto ai cristiani la scelta tra una fuga senza beni, il pagamento della jizya o la morte, costringendo centinaia di migliaia di cristiani – ma non solo – a lasciare le loro abitazioni. «Non ero solo scioccato – rivela monsignor Habash, di ritorno da un viaggio ad Erbil, città divenuta il rifugio di molti dei cristiani in fuga – non stavo solo affrontando un orribile scandalo; sono rimasto paralizzato. Il mio spirito, la mia mente non potevano funzionare con ciò che ho visto là: decine di migliaia di persone non solo soffrivano, ma morivano, nella maniera più oltraggiosa».

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«Perché? La gelosia del diavolo è ciò che è accaduto. Questa tempesta, ciò che è accaduto loro, può essere facilmente chiamata gelosia del diavolo». Una gelosia che minaccia di distruggere anche gli insostituibili ponti che la presenza cristiana nel Vicino e Medio Oriente crea fra la Cristianità e l’intero mondo islamico. «Non c’è ponte che non sia la Cristianità orientale per collegare fra loro le civiltà. Ma sfortunatamente, sfortunatamente, ciò che sta accadendo sta distruggendo ogni cosa, perché la tempesta è la tempesta del diavolo». Anche questa è memoria.

Nell’immagine: Iraq, profughi cristiani (AP).

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